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Arrivano gli uomini cyborg

Maurizio Stefanini

Prima però si passa dalla maialina di Elon Musk, e da una sconfinata letteratura di cervelli supertech

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Tra l’Uomo Finito di Edgar Allan Poe e l’Uomo Bicentenario di Isaac Asimov, arriva il Cypork di Elon Musk! Gertrude si chiama la maialina cui il patron di Tesla Motors e SpaceX ha affidato il primo passo verso la sua Brain Machine. Cioè, un chip per restituire parola e mobilità a persone paralizzate, innanzitutto, cui sta lavorando quell’impresa Neuralink che lui ha costituito nel 2017. Il suo terzo grande sogno, dopo l’auto elettrica e il volo su Marte. Ma “The Link”, come lo ha chiamato, secondo lui potrebbe andare ben oltre il ripristino della normalità, fino al punto di dare invece all’uomo capacità che oggi sarebbero giudicate come paranormali.  “Arrampicarsi sulle rocce senza paura, suonare una sinfonia nella propria testa, vedere il radar con visione sovrumana, scoprire la natura della coscienza”, ha spiegato il 28 agosto in un incontro con i suoi dipendenti.  Un po’ come un Fitbit nel cranio con dei minuscoli fili”.  

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Tra l’Uomo Finito di Edgar Allan Poe e l’Uomo Bicentenario di Isaac Asimov, arriva il Cypork di Elon Musk! Gertrude si chiama la maialina cui il patron di Tesla Motors e SpaceX ha affidato il primo passo verso la sua Brain Machine. Cioè, un chip per restituire parola e mobilità a persone paralizzate, innanzitutto, cui sta lavorando quell’impresa Neuralink che lui ha costituito nel 2017. Il suo terzo grande sogno, dopo l’auto elettrica e il volo su Marte. Ma “The Link”, come lo ha chiamato, secondo lui potrebbe andare ben oltre il ripristino della normalità, fino al punto di dare invece all’uomo capacità che oggi sarebbero giudicate come paranormali.  “Arrampicarsi sulle rocce senza paura, suonare una sinfonia nella propria testa, vedere il radar con visione sovrumana, scoprire la natura della coscienza”, ha spiegato il 28 agosto in un incontro con i suoi dipendenti.  Un po’ come un Fitbit nel cranio con dei minuscoli fili”.  

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E subito la fantasia vola, anche se nella vorticosa scorribanda tra leggende, letteratura, cinema, televisione e fumetti che viene subito in mente è utile fare un po’ d’ordine. Il leggendario Golem del Ghetto di Praga, costruito da un rabbino e poi ribelle al suo creatore, non è infatti un uomo cui sono state conferite le capacità di una macchina, ma il contrario: un automa di argilla, animato da una sorta di password scritta sulla sua fronte, e disintegrato dalla sua cancellazione. Più sofisticati ma in fondo sue varianti sono i replicanti di “Blade Runner”: in materia organica riprodotta per ingegneria genetica .  E il Terminator di Arnold Schwarzenegger: scorza organica su armatura metallica. Un po’ come l’Hel clone malvagio della predicatrice buona Maria in “Metropolis” di Fritz Lang. Poi i robot cui Isaac Asimov dedicò un intero ciclo di romanzi e per cui inventò le sue Tre Leggi: in metallo e plastica E, su tutti, i protagonisti di R.U.R., il dramma portato in teatro dal ceco Karel Capek nel 1921, dove esseri artificiali in protoplasma chimico creati dall’uomo per alleviare le sue fatiche finiscono per prenderne il posto, ma poi non sanno come riprodursi fin quando un esemplare maschio e una femmina non si innamorano tra di loro. Da lì si diffuse nel mondo il termine “robot”, che nelle lingue slave significa semplicemente “lavoratore”. 

 

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L’Iron Man della Marvel e il RoboCop del film di Verhoeven sono esseri umani, che per sopravvivere devono  essere robotizzati. Nel 2004  l’artista anglo-catalano Neil Harbisson vinse la battaglia legale per farsi riconoscere ufficialmente come cyborg


 

Il Frankenstein di Mary Shelley è invece costruito con parti di cadaveri umani, ma alla fine anch’esso è un uomo artificiale, che all’uomo vorrebbe essere assimilato e che soffre per gli ostacoli che incontra a questo bisogno di riconoscimento. Al contrario, l’Iron Man dei fumetti della Marvel e il Robocop del film di  Paul Verhoeven sono esseri umani, che per sopravvivere devono però essere robotizzati. Più in dettaglio, Tony Stark rischia di morire per via di una mina che lo ha riempito di schegge metalliche a contatto col cuore: in Vietnam nel fumetto originale del 1963; in Afghanistan nel film del 2008. L’esoscheletro che lo trasforma “Uomo d’Acciaio” ha il potente effetto collaterale di farne un Supereroe, ma il suo scopo principale è semplicemente quello di sostenere il magnete pettorale che fa funzionare il cuore malgrado le schegge. 

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Il poliziotto Alex Murphy è stato invece già ucciso da una banda di feroci criminali, che lo ha mutilato a colpi di fucile. Ma una multinazionale lo riporta in vita, sostituendo le parti mutilate con protesi meccaniche rivestite da una corazza di titanio e kevlar, mentre anche il  cervello viene integrato con un sistema informatico. Capace ormai di zoomare e mirare con precisione millimetrica e di taggare bersagli multipli, RoboCop nella sua memoria può anche registrare audio e video, utilizzabili come prove legali, mentre nel casco un visore termografico scruta attraverso le pareti, nel braccio destro uno spinotto che si connette ai computer, e nella gamba destra c’è una pistola automatica con proiettili speciali. 

 

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Raccapricciante? Ma a veder bene anche gli occhiali che restituiscono la vista al miope, la dentiera che ridà la masticazione allo sdentato o la protesi che permette di camminare al mutilato sono artifici del genere. Risale addirittura al mito la metafora della Sfinge sull’uomo come animale che dopo aver gattonato a quattro zampe poco dopo la nascita ed aver poi camminato su due per gran parte della sua vita al momento della vecchiaia si fa tripede appoggiandosi a un bastone. Dal 1967 si trapiantano cuori; dal 2010 esiste anche il cuore artificiale permanente; nel 2004  l’artista anglo-catalano Neil Harbisson riuscì a vincere la battaglia legale per farsi riconoscere ufficialmente come cyborg, e poter dunque inserire nel passaporto una foto con l’antenna che si è fatto montare in testa per poter percepire i colori come suoni, dal momento che al mondo normale non può riconoscerli per via di una anomalia che si chiama acromatopsia e che ha dalla nascita.  “Non è l’unione tra l’antenna e la mia testa a convertirmi in un cyborg ma l’unione tra il software e il mio cervello”, spiega. 

 

Docente emerita presso l’Università della  California, Santa Cruz, in cui ha insegnato Teoria femminista e Storia della scienza e della tecnologia, Donna Haraway ha elaborato addirittura una “teoria del cyborg” secondo cui è tendenza naturale degli esseri umani quella di ricostruirsi attraverso la tecnologia allo scopo di distinguersi dalle altre forme biologiche del pianeta. Partito fin dalle prime e più arcaiche forme di manipolazione del corpo umano, questo progetto continua e si espande oggi grazie all’utilizzo di protesi tecnologiche e allo sviluppo dell’ingegneria genetica. Il desiderio di migliorare ciò che ha determinato la natura, secondo lei, sarebbe alle origini stesse della cultura umana. Tutti siamo un po’ cyborg, e per dirla alla Zarathustra di Nietzsche l’essere umano alla fine non è che una corda sospesa tra la bestia e il cyborg.   

 

L’astronauta della Nasa colonnello Steve Austin che diventa un superuomo grazie alla ricostruzione bionica delle gambe, braccio destro e occhio sinistro  perse durante una missione sperimentale è il protagonista di “L’uomo da sei milioni di dollari”, serie tv cult degli anni Settanta tratta da un romanzo di Martin Caidin. Dopo un po’ anche la sua compagna Jaime Sommers ha bisogno di un intervento simile dopo una disastrosa caduta col paracadute, e così si trasforma in “Donna bionica”: altra serie tv cult. Fantascienza, ovviamente. Ma è stata invece realtà la storia di Oscar Pistorius: “Blade Runner”  e “l’uomo più veloce senza gambe”, che sostituiva con protesi in fibra di carbonio. Primo e unico atleta amputato capace di vincere una medaglia in una competizione iridata per normodotati, ottenendo l’argento con la staffetta 4×400 metri sudafricana ai Mondiali di Taegu 2011, trovava appunto resistenze alla sua continua richiesta di competere con i “normali”, proprio perché si diceva che i piedi artificiali non si sarebbero limitati a compensare il suo handicap, ma gli avrebbero dato un vantaggio ingiusto. Poi si vide che in realtà non era così, e comunque alla fine Pistorious ha tristemente completato la sua richiesta di essere considerato come una persona normale col ricevere una condanna, per l’omicidio colposo della fidanzata.    

 

Appunto, però, forse le metafore più potenti sul tema sono quelle di Poe e di Asimov, proprio perché le più ambigue. Pubblicato nel 1839, “L’uomo finito - Un racconto della recente campagna contro i Bugaboos e i Kickapoos” è il racconto in prima persona dello scrittore a cui è stato presentato il famoso e illustre generale John A.B.C. Smith, che lo ha colpito piacevolmente per il proprio aspetto e piacevolezza, ma con uno strano retrogusto di insolito che non riesce a decifrare. Per tutto il racconto il narratore cerca di farsi spiegare perché il generale è diventato famoso da vari interlocutori che lo sanno, ma che per una ragione o per l’altra vengono in continuazione interrotti nel mentre stanno per rivelargli l’arcano. Finché, esasperato, non va nella residenza stessa del generale, dove in attesa di essere ricevuto prende nervosamente a calci un fagotto abbandonato sul pavimento. Il fagotto protesta con una vocina sottile, e poi di fronte allo sbigottito narratore e con l’aiuto di un impassibile servo negro di nome Pompeo si monta addosso via via gambe, braccia, spalle, petto, parrucca, occhi, dentiera e palato. E così si ricompone il generale A.B.C Smith, che durante l’ultima sua campagna gli indiani hanno fatto a pezzi, ma che grazie alla scienza moderna ha potuto rimediare con pezzi di ricambio i cui fornitori raccomanda con entusiasmo. 

 

“Maled...ti vagabondi!” Disse con un tono di voce così chiaro che addirittura sobbalzai per il cambiamento. “Maled...ti vagabondi, non soltanto mi hanno sfondato il palato, ma si sono anche presi la briga di tagliarmi almeno sette ottavi della lingua. Però in America Bonfanti non ha uguali per gli articoli di questo genere veramente buoni. Posso raccomandarvi a lui in via confidenziale” — e qui il Generale si inchinò - “e vi assicuro che avrei grande piacere nel farlo.””. Conclusione: “Gli espressi come meglio sapevo la mia gratitudine per la sua gentilezza, e presi immediatamente congedo, dopo aver compreso alla perfezione come stavano realmente le cose, dopo aver compreso pienamente il mistero che mi aveva turbato per così tanto tempo. Era evidente. Era un caso del tutto chiaro. Il Generale di Brigata Onorario John A.B.C. Smith era l’uomo — era l’uomo che aveva finito di esistere”. Sicuramente esagerato, immaginare una resurrezione del genere con i materiali puramente meccanici di primo Ottocento. Ma forse è esagerata anche la stroncatura. Dopotutto, come  raccontato all’inizio, il generale ricostruito in società fa la sua bella figura, e sembra anche godersela.

 

Al contrario, “L’uomo bicentenario” del racconto di Asimov del 1976 portato sullo schermo con Robin Williams nel 1999 è un robot: però con doti artistiche e intellettuali estranee alla sua programmazione originale. La famiglia proprietaria ne è stupita, ma poiché le qualità del robot Martin le fanno comodo e le danno motivo di orgoglio ne appoggia la lunga marcia di emancipazione che lo porta nel corso di 200 anni via via ad acquisire un conto in banca, a vedersi riconosciuta la libertà, a diventare dottore e storico dei robot, e infine a creare una scienza protesiologica grazie alla quale aiuta gli uomini a vivere più a lungo. A sua volta diventa però  sempre più umano, fornendosi di organi che gli permettono di mangiare, bere e suonare, fino ad acquisire la finale piena equiparazione nel momento in cui riesce a morire. C’è stato insomma uno scambio tra umanità e robot che segnerà in profondo quell’universo narrativo in cui Asimov fonde i due cicli dei Robot e della Fondazione, e in cui alla fine si scoprirà che è stato il robot umanizzato Daneel Olivaw a vegliare sull’umanità per 20.000 anni nel ruolo di Provvidenza. 

 

Ma qua stiamo già sprofondando in un vortice di futuro non controllabile. In attesa di Daneel Olivaw, nei tweet in cui aveva annunciato questa “matrix in the matrix”, Musk aveva promesso una dimostrazione di neuroni all’interno di un cervello vivente. I suoi assistenti hanno portato tre maialini, il cervello di un maiale conteneva un impianto, e altoparlanti nascosti hanno rilanciato brevi suonerie che secondo Musk erano registrazioni dei neuroni dell’animale. Inoltre, all’interno di un casco di plastica bianca e liscia c’era un prototipo aggiornato  della macchina da cucire robotizzata che Neuralink aveva presentato un anno fa, e che dovrebbe permettere di immergere in modo assolutamente indolore mille elettrodi ultrafini in un cervello. Per ora, di un roditore: ma in futuro secondo Musk basterà mettere in testa i modelli più aggiornati di questo casco, per farsi inserire nel cervello capacità strepitose.

 

Sempre facendo un buco nel cranio da chiudere con una supercolla, si potrebbe inserire nel cervello il già citato “The Link”. Che sarebbe poi un disco grande come un  dollaro d’argento con dentro chip per computer in grado di trasmette in wireless i segnali registrati dagli elettrodi. “Potrei avere un Neuralink in questo momento e non lo sapreste”, ha detto Musk. L’impianto dovrebbe essere facilmente sfilabile in modo da montare via via versioni più aggiornate, in un futuro dove la gente  prima di andare a dormire si collegherà, per ricaricare l’impianto durante il sonno.

 

Spacconate, ha più o meno commentato la rivista del Mit di Boston. A parte che a quattro anni dalla sua fondazione Neuralink non ha ancora fornito alcuna prova che il suo lavoro possa contribuire davvero a trattare la depressione, l’insonnia e una dozzina di altre malattie che Musk ha menzionato, obietta il magazine, il problema chiave è che un cervello vivente ha un potere altamente corrosivo, e difficilmente i microfili necessari potrebbero sopravvivere anche solo per un decennio. I maligni suggeriscono dunque che l’obiettivo vero di Musk era piuttosto quello di farsi pubblicità, e in effetti la Borsa ha risposto talmente bene che il lunedì successivo il patrimonio netto di Elon Musk è salito fino 102,9 miliardi di dollari. 10,4 miliardi di aumento in una sola, seduta che gli hanno permesso di diventare la quinta persona al mondo con un patrimonio superiore ai 100 miliardi. Da metà marzo, mentre il Pil delle principali nazioni crollava di un terzo il suo patrimonio è quadruplicato. “Non me ne potrebbe fregare di meno”, lui assicura. “Questi numeri aumentano e diminuiscono, ma ciò che conta davvero è realizzare ottimi prodotti che le persone adorino”.

 

Alla faccia del Cyborg, avrebbe detto Totò. 

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