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Il Covid non l’ha piegata

Cortina, città eterna di vacanza, ricchezze e nostalgia

Michele Masneri

L’estate autarchica post pandemia ha trasformato il celebre Miramonti Majestic in un’Italia da Festival di Sanremo e da provincia opulenta. All’improvviso le foto dalla montagna fanno più like di quelle in spiaggia

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Nell’estate post lockdown c’è la Cortina classica, quella che resiste a tutto e a tutti e anche alle pestilenze, e poi ci sono dei tentativi di modernizzazione e aggiornamento tecnologico e antropologico, così in questa estate di grazia e disgrazia 2020 ecco il sopralluogo dal più classico cliché della vacanza italiana, la Perla delle Dolomiti, il luogo delle escursioni e aspirazioni italiane, vetta più alta di quel Veneto che ha resistito meglio di tutti al contagio, e insieme roccaforte della romanità che cerca un posto al sole tra Instagram e la realtà. Ecco allora che un pomeriggio nella hall del Miramonti può servire come un workshop di studio sulle classi abbienti italiche nell’era covidica, meglio di una puntata di Quark o un’indagine di De Rita: il Miramonti Majestic che pare uscito da un Wes Anderson, anno di fondazione 1902, su un cucuzzolo della montagna, con le sue torrette disneyane, una meraviglia: dice che lo scrittore Peter Cameron ne è pazzamente innamorato, e certo i parquet emettono scricchiolii per appassionati, la chiave non è ancora sostituita dalle schede elettroniche e non c’è una sola telecamera, è l’ultimo cinque stelle analogico delle Alpi e forse del mondo. Fuori, nel pratino, una dama dice a un’altra “eh, signora, che vuole, starò qui le solite sei settimane”, l’altra risponde “che bene che si sta”, mentre nella sala da pranzo colossale da nave da crociera o da nostalgia asburgica alcuni ospiti inciampano, altri si osservano e si parlano di tavolo in tavolo, è un’Italia da Festival di Sanremo, da provincia opulenta, e anche le camere con armadiature grandi quanto monolocali sono da vacanze stanziali d’altri tempi. La signora però è fuggita dalla bassa lombarda per il Covid, e si è rifugiata qui per la paura, “quando si è ammalato pure il mio medico”.

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Nell’estate post lockdown c’è la Cortina classica, quella che resiste a tutto e a tutti e anche alle pestilenze, e poi ci sono dei tentativi di modernizzazione e aggiornamento tecnologico e antropologico, così in questa estate di grazia e disgrazia 2020 ecco il sopralluogo dal più classico cliché della vacanza italiana, la Perla delle Dolomiti, il luogo delle escursioni e aspirazioni italiane, vetta più alta di quel Veneto che ha resistito meglio di tutti al contagio, e insieme roccaforte della romanità che cerca un posto al sole tra Instagram e la realtà. Ecco allora che un pomeriggio nella hall del Miramonti può servire come un workshop di studio sulle classi abbienti italiche nell’era covidica, meglio di una puntata di Quark o un’indagine di De Rita: il Miramonti Majestic che pare uscito da un Wes Anderson, anno di fondazione 1902, su un cucuzzolo della montagna, con le sue torrette disneyane, una meraviglia: dice che lo scrittore Peter Cameron ne è pazzamente innamorato, e certo i parquet emettono scricchiolii per appassionati, la chiave non è ancora sostituita dalle schede elettroniche e non c’è una sola telecamera, è l’ultimo cinque stelle analogico delle Alpi e forse del mondo. Fuori, nel pratino, una dama dice a un’altra “eh, signora, che vuole, starò qui le solite sei settimane”, l’altra risponde “che bene che si sta”, mentre nella sala da pranzo colossale da nave da crociera o da nostalgia asburgica alcuni ospiti inciampano, altri si osservano e si parlano di tavolo in tavolo, è un’Italia da Festival di Sanremo, da provincia opulenta, e anche le camere con armadiature grandi quanto monolocali sono da vacanze stanziali d’altri tempi. La signora però è fuggita dalla bassa lombarda per il Covid, e si è rifugiata qui per la paura, “quando si è ammalato pure il mio medico”.

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Il Miramonti Majestic pare uscito da un film di Wes Anderson. Anno di fondazione 1902, su un cucuzzolo della montagna


 

Come lei, tante altre, sole, che si cambiano d’abito anche tante volte al giorno, e cenano, con le perle e l’aria un po’ spersa, riflesse nello scintillio delle cloche d’argentone che i camerieri si impegnano a sollevare come in un vecchio film, “un-deux-trois”, dicono in francese e le alzano all’unisono, mentre per la prima colazione dei pannelli di plexiglas anticati col bordino d’oro proteggono il buffet – le precauzioni sono al massimo, vista l’utenza. Lo chef Nicola, cortinese doc, dice che son rimasti gli unici a usarle, queste cloche, a Cortina, che ricordano una vecchia pubblicità Barilla di Fellini (“Rigatoni”); e sono cinquecento, uno dei più grossi servizi rimasti in questo tipo di alberghi, e anche il menu è rimasto incapsulato nel tempo, con vasto uso di burro, latte e yogurt interi, mai è arrivato il sostituto vegetale e la moderna soia – insomma, un set bell’e pronto, con borghesie ormai introvabili, e macchine lustre degli anni Novanta, Mercedes cabrio con targhe del vecchio tipo (degli ultimi anni in cui l’Italia tirava).


Le signore con le perle e l’aria un po’ spersa, riflesse nello scintillio delle cloche che i camerieri si impegnano a sollevare come in un vecchio film 


 

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Più indietro, leggende, naturalmente, di un passato gloriosissimo, con Brigitte Bardot che fugge, dal Miramonti, arriva in una Cortina assediata dai paparazzi, nel 1958, per ritemprarsi dalle fatiche di “En cas de malheur”, che a settembre andò al festival di Venezia. I quattro mesi di riprese accanto a Jean Gabin l’avevano certamente arricchita dal punto di vista attoriale, ma l’avevano anche sfiancata. Per recuperare le energie aveva bisogno di una pausa”, scrive Mauro Zanon in “Brigitte Bardot. Un’estate italiana”. “Parte con la sorella Mijanou che le fa un po’ la guardia del corpo e Dany, la sua controfigura”. E proprio la sua controfigura sarà fondamentale, perché lei, stufa dei fotografi, manda in giro per Cortina questa sua sosia, e tutti ci cascano. Ma le memorie non mancano, come le cloche, qui nella hall son stati girati il progenitore di tutti i cinepanettoni, “Vacanze d’inverno”, di Camillo Mastrocinque, e poi “il Conte Max” sempre con Sordi edicolante di via Veneto che viene scambiato per un nobile romano e poi parte al seguito di una baronessa molto “bitch”, via per la Spagna in una fiesta mobile (e di Hemingway, naturalmente, a Cortina, chi più ne ha più ne metta, di storie): ma sono fasti lontani, nell’estate autarchica dell’Italia agli italiani, qui appunto più che contesse spagnole e attrici francesi ci sono oggi dei nobili veneti e delle rezdore di Reggio (Emilia) e delle famiglie del Fleming. Glamour un po’ passé, “e le mance che non sono più come una volta”, dice lo chef Nicola, sospirando tra le foto di Clark Gable alle pareti, distintissimo nella sua uniforme bianca, mentre entra Michele Mirabella, accompagnato dal suo luogotenente cortinese conte architetto Giancamillo di Custoza, e Mirabella twitta foto e aforismi a nome del suo corgi Filippo (“oggi il mio padrone mi ha portato in Tofana!”). Ponte generazionale?


Oggi più che contesse spagnole e attrici francesi ci sono dei nobili veneti, delle rezdore di Reggio (Emilia) e delle famiglie del Fleming


 

Accanto a questa Cortina analogica, dei medaglioni di filetto, del latte intero, del quotidiano di carta, di questo mondo insomma e di questa Italia che bisognerebbe tutelare almeno con l’Unesco, ce n’è una più moderna che un po’ sta venendo fuori, una Cortina che sul lato dell’offerta tenta di diventare più internazionale e smart: lo zucchero per esempio è bandito da SanBrite, ristorantino anzi “agricucina” molto di ricerca dove il cuoco barbuto Riccardo, cortinese già allievo di Bottura, ha trasformato il caseificio di famiglia in un posto molto Danimarca con piatti come lo spaghetto al mugo, o la trota marinata in acqua di levistico e panna acida, dove tutto è ecocompatibile e radicale e “dalla stalla alla tavola”, dove si può mangiare anche stesi direttamente nel prato, con panini esperienziali portati in ceste in un pic nic assai chic su coperte nere, da damigelle vestite da “Racconto dell’ancella”, con vestitino nero e colletto di pizzo bianco, tutto molto organic e bio – “per chi vuole qualcosa un po’ diverso dalla solita cucina che si richiede qui, tipo l’aragosta”, dice Ludovica, la compagna-manager, e viene in mente il leggendario finale di “Yuppies” coi quattro amici che pasteggiano in quota mentre arriva il conto da pagare (“la ragazza tua s’è magnata l’aragosta. No dico l’aragosta a Cortina. Era mejo se la buttavi sotto al ponte de Bassano”, dice Christian De Sica, appunto).


Sul lato dell’offerta tenta di diventare più internazionale e smart: lo zucchero per esempio è bandito al ristorantino SanBrite


 

Insomma, qualcosa si stia trasformando. “L’impressione è che il Covid abbia un po’ fermato un momento di cambiamento che era in corso”, dice Francesco Chiamulera, trentacinquenne cortinese, plurilingue, specializzato a Boston, esponente di questa nuova generazione di locali che stanno svecchiando la cittadina, organizzatore e fondatore di “Una montagna di libri”, che ha sostituito “Cortina Incontra”, il format degli eventi cortinesi dei romani Cisnettos. Imprescindibile tradizione, quella del festival, perché gli eventi contano molto per chi d’estate viene a Cortina - cominciò il libraio Sovilla, e c’era Montanelli, e poi i Cisnettos, negli anni Duemila, quando Cortina era quarta Camera dello Stato, con presidenti del Consiglio e ministri e lampeggianti e scorte. Ma adesso con Chiamulera questi eventi cortinesi son botturizzati, basse cotture e sapori freschi, filiera corta, più scrittori e meno politici; il festival di Chiamulera è diffuso, e il PalaCisnetto dietro la vecchia stazione è stato abbattuto, ci faranno nuovi appartamenti e un parcheggio, interrato.

 

Perché comunque ci son tante macchine, a Cortina: la Venezia-Belluno è sempre un dramma, e adesso tanti cantieri, in vista degli eventoni in arrivo, i mondiali di sci dell’anno prossimo, e le Olimpiadi invernali del ’26, quelle della “Milano-Cortina”; ma un giorno si potrà forse venir su con l’autopilota, come neanche Elon Musk: e se di Tesla ce n’è qualcuna in giro, tra le eterne Range Rover e Panda 4x4, ecco la “smart road”, cioè l’infrastruttura elettronica che gestisce le nuove strade, fatta dall’Anas, mi dice nel suo studio tutto foderato di legno il vicesindaco Luigi Alverà, che gestisce il dossier olimpico, e dice che insomma lo stradone verrà digitalizzato, e tutto procede per i mondiali, e che pure per le Olimpiadi nessun intoppo, e proprio in questi giorni il ministro De Micheli ha detto che a settembre nascerà la società Milano-Cortina 2026, con poteri commissariali speciali, e un miliardo di lavori.


“L’impressione è che il Covid abbia un po’ fermato un momento di cambiamento che era in corso”, dice Francesco Chiamulera


 

Con Milano è sempre stata una relazione complicata: a Cortina ci vengono i romani, i lombardi e gli emiliani di provincia, e i veneti, ma i milanesi proprio no. E anche chi temeva che Milano, la Milano arrembante del pre-Covid, si mangiasse Cortina in questo inedito connubio olimpico, oggi sta tranquillo, perché se il capoluogo lombardo deve ripensare la sua identità covidizzata e post-arrembante, Cortina è più viva che mai. “Abbiamo una buona identità”, dice con understatement il vicesindaco; e se Beppe Sala ogni tanto vien su a farsi i selfie, qua è appena arrivato Luca Zaia, vincitore morale del Covid, success story che era partita malissimo, coi cinesi che mangiano i topi vivi, e poi ha avuto un arco narrativo esemplare col Veneto che ha fatto tutte le cose giuste al momento giusto, e ora dal palco di “Una montagna di libri” annuncia che “entro poche settimane il Veneto sperimenterà un tampone che utilizza la saliva”, insomma, Zaja mejo di Putin (e come consensi, in vista delle elezioni regionali, le percentuali si prevedono putiniane).

 

Chi ha una dacia a Cortina è felice: e in effetti passeggiando tra boschi e prati si notano le centraline rosse della fibra ottica, perché l’Ottanta per cento delle case ha il collegamento veloce, dice il vicesindaco. Insomma, Cortina non solo non viene schiacciata da Milano, ma con nemesi e paradosso realizza la profezia delle archistar milanesi, che volevano tutti a lavorare nei borghi. Così, col Covid, tanti turisti che erano qui a sciare son rimasti e si son resi conto che si può lavorare meglio che a Venezia (non parliamo di Roma). “Chi è rimasto riusciva a fare smart working contemporaneamente ai figli che facevano scuola a distanza, una cosa difficile per esempio a Venezia”, dice al Foglio Emanuela de Zanna, direttrice della Cooperativa di Cortina, il grande magazzino che a Macy’s gli fa un baffo, quello in cui le tribù dei nobili e dei “Torpigna” si incontravano nel primo “Vacanze di Natale”, per provarsi i giubbotti da sci. Centro dei traffici e dei flussi, e potentato economico ma anche luogo di struscio, posto al centro di corso Italia, e in Cooperativa si va per guardare ed essere guardati; meraviglia del consumo che tiene insieme tovaglie a scacchi, peluche con lo scoiattolo, dirndl, scampoli, scarpe da montagna, idropulitrici da giardino, vasta enoteca di champagne, ferramenta, edicola e libreria, per cui puoi comprare l’ultimo modello di smartphone mentre accanto ti molano il duplicato delle chiavi (articolo più venduto: lo scoiattolo di peluche, 20.000 pezzi). Lei, quarantatreenne, dopo una gavetta partita dal call center, è appunto la prima donna in due secoli a guidare questa specie di Mediobanca d’Ampezzo, dove non contano tanto i fatturati – 34 milioni l’anno, e i dipendenti che sono 160 fissi e in alta stagione diventano 200 – ma i soci, le seicento famiglie locali che si succedono di padre in figlio dall’Ottocento, e eleggono il direttore che normalmente a vita, insomma tipo romano pontefice. Lei ha pure l’anello, non quello del pescatore ma comunque con stemma, storica famiglia cortinese e questo le avrà permesso di superare il gender gap e di essere ammessa al Soglio, ma la papessa della Cooperativa sta portando innovazioni che passano dai corsi di “mindfulness” e “comunicazione corporea”, e seminari su “dalla resilienza alla fragilità”; e “l’arte della guerra per donne che lavorano”, tutto fruibile anche da visitatori esterni, grazie alla fibra ottica, ovvio.


I post dal lago di montagna sono le nuove cartoline dalle Maldive, quelle che chi non andava in vacanza affidava agli amici, da spedire


 

La papessa che sta modernizzando la Cooperativa è olivettiana, nel senso di figlia di due dirigenti della Olivetti, entrambi cortinesi che “dopo aver girato il mondo erano entrati all’Olivetti” e lei stessa è “nata a Ivrea”, e ha fatto in tempo a lavorare a quella che era la nostra Apple – di cui qui ha importato un po’ la cultura aziendale, anche se più che l’iPhone si vendono soprattutto i telefoni Brondi con tasti giganti. L’olivettiana direttrice ha passato il lockdown a impacchettare la spesa per turisti e residenti, perché oltre alla fibra, a Cortina la cooperativa garantiva la spesa a domicilio a tutti, altra cosa che in città era impossibile, con noi inchiodati a guardare i pallini di consegna dell’Esselunga, cercando con lo sguardo implorante quello verde. “Siamo stati in grado di servire tutti: non abbiamo una app o un servizio di e-commerce, ma anche i clienti più anziani ci scrivevano la spesa per email, io stessa ho passato il lockdown a leggere le circa 250 mail che arrivavano ogni giorno, e imbustare la spesa”, dice de Zanna, che sta non solo olivettizzando la Cooperativa – investendo sulla comunicazione e sulla formazione – ma anche velocemente rinnovando la parte più famosa del mall, il supermercato, introducendo anche una linea di “private label” Cortina 1893, anno di fondazione, con la stella alpina firma della casa.

 

A Cortina insomma “abbiamo un’identità”, come dice il vicesindaco, e abbiamo pure una banca: si riscoprono le origini, e in questa identità anche la vecchia “Cassa rurale ed artigiana” si è trasformata in “Cortina banca”, nuovo brand che vuole essere insieme locale e sexy, e c’è da scommettere che qualcuno anche foresto aprirà conti anche solo per bullarsi e buttare sul tavolo una carta di credito con quel marchio sopra – gli Yuppies l’avrebbero fatto certamente.


Emanuela de Zanna è la prima donna a guidare la Cooperativa di Cortina, dove non contano i fatturati ma i soci


 

In mezzo alle due città, quella degli augusti vecchietti del Miramonti e quella dei giovani tecnologici, i trenta quarantenni che hanno viaggiato e sono tornati qui, si pone l’eterna terra di mezzo dei tamarri senza età , quelli che nessuno potrà mai estirpare, i Torpigna e i RomaNord che oggi sono globali e si trovano su Instagram: molto diversi dal romano gestore della Milano-Cortina, Giovanni Malagò, aristocrazia sportivo-automobilistca dei Parioli. I romani, Covid o non Covid, hanno sempre questa passione per questo posto, passione totalizzante e misteriosa, non tale da giustificare l’immane traversata in macchina o treno. Li trovi ovunque, nei sentieri, sul corso, nei boschi. Per Enrico Vanzina, mi raccontò, questo amore si deve soprattutto al paesaggio, alla cornice delle Alpi senza pari né ad Aspen né nelle varie St. Moritz o Gstaad. E al ricordo di villeggiature lunghe e strutturate di buone borghesie forse oggi scomparse, coi treni fumanti che partivano dalla Stazione Termini coi vagoni letto assaltati da pellicce e bauli e nannies francesi e tedesche, per risvegli già con la neve. E poi tutti a ritrovarsi in Cooperativa o al Caminetto per le aragoste e i medaglioni di filetto (ristorante che piace forse perché chiamato come il Caminetto di viale Parioli). Insomma, noi non romani abbiam fatto sempre fatica a capire l’amore romano per le tofane – ma loro si giustificano col fatto che qualunque montagna è lontana da Roma, dunque è un’impresa. A meno di non andare al Terminillo – che pure ha i suoi estimatori, o “a Capracotta”, come dice Sordi nel “Conte Max” (ma sempre sognando Cortina).

 

Oggi però anche il Torpigna e il Romanordista si adattano, crescono, cambiano location. Così l’attrazione più battuta di corso Italia è il negozio di Chiara Ferragni, dove le guide turistiche si soffermano come se fosse un monumento nazionale o almeno del Fai, dando le spalle ai tanti palazzi affrescati e storici del corso; e le code per lo shopping ferragnesco non si sa se siano dovute ai distanziamenti da Covid o da autentico spirito d’acquisto. Fuori città, i Torpigna globali hanno preso d’assalto i laghi. Le folle assediano soprattutto il Sorapis, fino a pochi anni fa sconosciuto luogo tra Cortina e Misurina, caro a Montale. “Tra i laghi solo quello di Sorapis fu la grande scoperta”, scriveva il poeta. “C’era la solitudine delle marmotte più udite che intraviste e l’aria dei Celesti; ma quale strada per accedervi? Dapprima la percorsi da solo per vedere se i tuoi occhietti potevano addentrarsi tra cunicoli zigzaganti tra le lastre alte di ghiaccio. E fu lunga! Confortata solo nel primo tratto, in folti di conifere, dallo squillo d’allarme delle ghiandaie. Poi ti guidai tenendoti per mano fino alla cima, una capanna vuota”. Oggi più che marmotte e conifere ci sono coatti che si sporgono da ogni dove, ragazzotte in tanga in favore di macchina fotografica, o giovanotti con muscoli guizzanti, tutti in pose ginniche anche pericolose, appostati come stambecchi sulle rocce, a valorizzare dorsali e polpacci e glutei ottenuti in pesanti sedute di palestra.


L’attrazione di corso Italia è il negozio di Chiara Ferragni, dove le guide turistiche si soffermano come se fosse un monumento nazionale 


Il tutto è cominciato quattro anni fa, raccontano, quando qualcuno ha cominciato a postare le foto di questo lago, dal particolare colore azzurro, su Instagram. Così se cerchi Sorapis su Instagram ti escono ventiseimilacinquecento post, e adesso i sentieri che portano al lago sono fiumane di iPhone, che salgono armati di materassini e gonfiabili, unicorni compresi, che poi spesso lasciano lì, come in una piscina abbandonata. L’anno scorso il sindaco di Cortina ha dovuto emettere un’ordinanza anti-balneazione, per le folle che ci si buttavano (e poi, frequenti coccoloni per le acque che non sono, come molti mettono nel cancelletto, #Bahamas, bensì acque alpine dunque gelide, a quota 1.900 metri). E anche oggi, appena finito il lockdown, il sentiero che porta al lago, quello che dal passo Tre Croci porta al rifugio Vandelli, “è preso d’assalto da moltissimi gitanti, alcune migliaia al giorno. Quest’anno il fenomeno ha cominciato a verificarsi già a maggio, appena concluso il periodo di isolamento in casa, quando si cominciarono a vedere lunghe colonne di auto parcheggiate a lato della strada”, scrive il Gazzettino. Il Sorapis non è l’unico, il popolo di aspiranti influencer ama molto il lago di montagna, così è dramma anche quest’anno per il lago di Braies, in Alto Adige, set della serie tv “Un passo dal cielo” della Rai, che celebra le imprese di audaci forestali: e lì, trecentoundicimila post, quattrocentomila visitatori l’estate scorsa, e pure lì immani problemi di ordine pubblico. Saranno le acque colorate che vengono così bene in foto, sarà che è possibile fare un figurone e mietere like senza dover prendere l’aereo, ma quello dei laghi di montagna pare un problema ecologico peggiore dell’innalzamento dei mari: i post dal lago di montagna sono le nuove cartoline dalle Maldive, quelle che chi non andava in vacanza affidava agli amici, da spedire, negli anni Ottanta (per poi chiudersi in casa). Nella classifica dei tamarri lacustri, si dice a Cortina, i peggiori sono i russi, che però quest’anno latitano. E poi, chi altri? I romani, scrive il Gazzettino: e insomma si ritorna sempre lì, ai Torpigna, alla scena primaria cortinese: nelle “Finte Bionde”, il solito gruppo di romani cerca posto al Caminetto, e poi molto soddisfatto lo trova. Il cameriere dice: “Siete fortunati, era il tavolo del conte Nuvoletti”. Loro felici. Replica del cameriere: “Il conte ha disdetto all’ultimo, ha detto che ci sono in giro troppi romani”.

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