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Quando c’era la villeggiatura

Fabiana Giacomotti

L’estate in villa, i pomeriggi immobili, le letture, il diario. Un lontano passato, fino all’anno del Covid

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Una vita a leggerne, e fino a questa estate non sapevamo che cosa fosse la villeggiatura, cioè l’estensione gaudiosa delle vacanze, quello iato spazio-temporale che un tempo era lecito, anzi previsto, riempire di riposo operosissimo, anziché di amori da vivere dal primo fino all’ultimo giorno. Villeggiare, cioè “riposarsi in luoghi ameni”, era un rito prezioso e il suo interprete par excellence l’imperatore Adriano nella sua residenza di Tivoli che infatti era una reggia perché lasciare la città per ritemprarsi non voleva dire ammassarsi in otto in un bilocale affittato su TriVaGo per due settimane, che è invece l’estensione cronologica delle ferie, conquista del lavoratore moderno, da cui gli sguardi stupefatti di migliaia di visitatori di Villa Adriana che immancabilmente si stupiscono della definizione: come, villa? Da allora il mondo si è rimpicciolito parecchio, come i suoi desideri e le sue prospettivo, tutti “medi”, il tempo “medio” di percorrenza, il viaggiatore medio, il consumatore medio, tutto una medietà, e la villa del nostro immaginario è quella anni Sessanta con le finestre in alluminio anodizzato e la tavernetta, pensata per le ferie del ragioniere e della gentile signora.

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Una vita a leggerne, e fino a questa estate non sapevamo che cosa fosse la villeggiatura, cioè l’estensione gaudiosa delle vacanze, quello iato spazio-temporale che un tempo era lecito, anzi previsto, riempire di riposo operosissimo, anziché di amori da vivere dal primo fino all’ultimo giorno. Villeggiare, cioè “riposarsi in luoghi ameni”, era un rito prezioso e il suo interprete par excellence l’imperatore Adriano nella sua residenza di Tivoli che infatti era una reggia perché lasciare la città per ritemprarsi non voleva dire ammassarsi in otto in un bilocale affittato su TriVaGo per due settimane, che è invece l’estensione cronologica delle ferie, conquista del lavoratore moderno, da cui gli sguardi stupefatti di migliaia di visitatori di Villa Adriana che immancabilmente si stupiscono della definizione: come, villa? Da allora il mondo si è rimpicciolito parecchio, come i suoi desideri e le sue prospettivo, tutti “medi”, il tempo “medio” di percorrenza, il viaggiatore medio, il consumatore medio, tutto una medietà, e la villa del nostro immaginario è quella anni Sessanta con le finestre in alluminio anodizzato e la tavernetta, pensata per le ferie del ragioniere e della gentile signora.

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Non avevamo mai vissuto la villeggiatura, però ne avevamo sentito parlare molto dalla nonna Emma, che si trasferiva al mare o al lago a fine maggio per non rientrare a Milano fino a ottobre inoltrato (vi siete mai domandati perché le Settimane Musicali di Stresa inizino a fine agosto e la Mostra del Cinema di Venezia pure? Perché negli anni della loro fondazione, quello era ancora tempo di villeggiatura, da riempire di avvenimenti, concerti e balli in terrazza).


Fino all’inizio del secolo scorso, era il topos letterario per eccellenza e in particolare dei romanzi per signore, da leggere in giardino


 

Non ne sapevamo molto, ma ne avevamo letto a sazietà, perché fino all’inizio del secolo scorso, la villeggiatura era il topos letterario per eccellenza e in particolare dei romanzi per signore, da leggere in giardino con la mano a reggere la fronte come nei quadri di Corcos e immedesimarsi con la protagonista, che a sua volta leggeva in giardino con la mano eccetera, in un gioco perfetto di specchi e di identificazione. Avevamo approfondito la villeggiatura in versione commedia, romanzo, satira, perfino thriller e horror, perché il dottor Frankenstein e il suo nuovo Prometeo sono nati dopotutto durante una settimana di tempesta estiva sul lago Lemano, e ci sono naturalmente Fruttero & Lucentini, a ricordarci che d’estate è meglio andar via, e possibilmente molto a lungo, perché la città diventa non solo canicolare, ma anche tentacolare e pericolosa. Abbiamo trascorso anni a chiederci che cosa ci fosse di così attraente per le platee della Serenissima nelle donnicciole di Carlo Goldoni, smaniose di risalire in estate i canali dalla Laguna fino a Strà, trenta chilometri che a quell’epoca dovevano parere continenti, e ci siamo domandate quanto tempo trascorressero le eroine di Edith Wharton a tendere le reti matrimoniali e come sulle coste del Massachussetts. Ci è dispiaciuto moltissimo mancare ai ricevimenti di lord Emsworth in onore dell’“imperatrice di Blandings”, la maiala da primo premio, e abbiamo trascorso pomeriggi immobili con Marcel Proust a osservare il sole scendere dietro le cortine della stanza d’albergo a Cabourg, domandandoci se non sarebbe stato meglio uscire e inseguirla, quella Albertine di cui avremmo voluto verificare meglio il genere. Abbiamo trascorso villeggiature letterarie in tutta la Francia; moltissime sulla Côte d’Azur di Fitzgerald e di Sagan, a bere whisky in spiaggia con Nicole Warren o con il padre di Cecilia, Raymond, e parecchie in quella Provenza che viene descritta invariabilmente su sfondo di cicale, cicaleccio umano e poveri muri a calce fino a tutti gli anni Cinquanta, quando arriva Brigitte Bardot e i locali finalmente capiscono come trarre vantaggio da quei luoghi dove l’estate semi-perenne è immersa nei profumi della lavanda e allora mettono un prezzo su tutto, fosse pure per il privilegio di tirare due boccette sulla Place des Lices di Saint Tropez. Credevamo che non l’avremmo mai conosciuta, la villeggiatura proustiana dove una stagione dava la mano a quella successiva e c’era tempo per capire, conoscere e approfondire tutto. A noi, late boomers, erano stati concessi due mesi fino alla fine del liceo, poi ferie anche noi mentre si studiava e si lavorava e talvolta manco quelle perché bisognava farsi largo e non mollare mai; sempre pronti, parati. Addio Sagan e adolescenze fra le cicale e la lavanda.

 

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Poi, è arrivato il Covid. E per chi ha avuto il privilegio di doversi solo rintanare in casa, l’idea della villeggiatura, dell’altrove impegnato, del vacuum vacanziero riempito però di belle cose, intelligenti magari, si è fatto più vicino. Potevamo toccarlo, addirittura viverlo, “da gentiluomini che hanno fatto buoni studi, vivono in villa e troverebbero volgare essere aggiornati”, come scriveva Giorgio Manganelli di Cesare Brandi e del suo memoir di viaggio, “Pellegrino di Puglia”. Vivere in villa è un modello esistenziale, come la villeggiatura che ne deriva e che è un concetto mobile, relativo e personale – qualcuno la fa, gli altri lo servono per permettergli di farla, addirittura costruiscono e smuovono terreni e modificano paesaggi perché il villeggiare si compia e talvolta esagerano, aggirando norme e sovrintendenze e deturpando i famosi “paesaggi incontaminati”.

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Era la dimensione adatta per quelle tribù che incorporavano diverse età della vita, classi sociali differenti, una fitta rete di conoscenze


 

 

Dalla Seconda guerra mondiale fino al 2020, l’anno del Covid, villeggiatura era nozione antica, desueta, passé e dunque fuori scala, come ben sanno quelli che hanno ereditato una di queste “ville di delizie”, secondo la definizione rinascimentale, che essendo state costruite per ospitare un’infinità di gente a cavallo di tre stagioni, nell’ultimo mezzo secolo sono apparse inadeguate ai nuclei familiari ridotti e alle abitudini estive a tempo limitato e andamento mobile, un anno in Norvegia col postale, un altro in Grecia ad appesantirsi di moussaka. Qualcuno le ha vendute, le villone, altri le hanno frazionate tenendo per sé l’ultimo o il piano terreno, ambitissimo per via dell’accesso al giardino. In questi mesi, sono tutte tornate ad aprirsi, ovunque. Riscoperte nei loro metri che sembravano troppi e che invece sono perfetti per queste famiglie ritrovate causa restringimento coatto dei confini nazionali; spaziose come i corridoi che non si avevano i fondi per trasformare in living e che adesso tornano utili per gestire il traffico di figli, nipoti e amici carichi di sacche e senza meta, perché se nessuno parte, e gli alberghi sono mezzi chiusi col personale in cassa integrazione, all’improvviso anche la villa “che te ne fai di tutta quella roba” diventa il rifugio ideale per sfangare l’estate al tempo stesso più compressa e più estesa e dunque non c’è un solo letto vuoto, una sola sedia in giardino senza il suo bravo cappello di paglia sopra, a occupare il posto, come nella “Colazione in giardino” di De Nittis, che, insieme con tutto il “fine Ottocento” opulento dei Monet, dei Manet e di Berthe Morisot, è l’interprete più efficace della villeggiatura, rituale antico giunto a compimento solo con la Belle Epoque e la necessità borghese di andare a “prendere l’aria buona” fuori dalle città che andavano riempiendosi di ciminiere. I principi rinascimentali villeggiavano in collina per sfuggire alle pestilenze, i bravi borghesi per curare l’angina pectoris.

 

Dovessimo guardare dalla finestra adesso, proprio mentre scriviamo, scorgeremmo l’applicazione architettonica dell’idea della villeggiatura con tutti i suoi addentellati filosofico-commerciali, lo sguardo dalla guglia di Villa Hershey-Branca a nord ovest giù giù fino a villa Campari (ora Berlusconi, in origine appartenuta a Cesare Correnti) a sud est, tutti industriali del bere villeggiante e ricreativo a cavallo del secolo e dunque diventati ricchissimi. Esiste un business del turismo, ancorché ultimamente sia molto depresso, come si sa e come lamentano tutte le associazioni di categoria e in particolare Federalberghi, ma non è dato il suo parallelo nella villeggiatura. La villeggiatura non è turismo, cioè il correre affannati qui e là per cercare di capire qualcosa di culture diverse e luoghi più o meno lontani; è un business particolare, intessuto di arte, letteratura, pensiero, con i suoi pittori, i suoi scrittori di convenienza e di ogni tempo e perfino gli ospiti che, talvolta anche oggi per le padrone di casa educate all’antica, trovavano nella camera preparata ad accoglierli un “albumino”, un piccolo diario su cui fissare note e pensieri e una scatola di acquerelli e dunque si mettevano all’opera, talvolta riempiendo le case di pregevolissimi ricordi o traendone spunto per opere successive (Rainer Maria Rilke al castello di Duino, Umberto Boccioni all’Isolino di San Giovanni sul Lago Maggiore dove soggiornava Vittoria Colonna di Sermoneta, l’ultimo grande amore della sua vita, da cui una delle sue ultime eredi, Marella Caracciolo Chia, trasse qualche anno fa quell’adorabile romanzo biografico che è “Una parentesi luminosa”). Poi, magari, l’esperienza dell’ospite o del padrone messo a dipingere per occupare il tempo andava malissimo, come nel famoso episodio dei “Piaceri” di Brancati in cui la moglie di quel tale aveva “ritratto se stessa, le sorelle, i cognati, i figli, il cane, due pomidori, di nuovo il cane, le posate, una terza volta se stessa, lui, il cane…” e sulle pareti non c’era più un punto libero, mentre “la casa era piena di personaggi rozzi e pigri che fissavano, con uno sguardo privo di intelligenza, le proprie immagini che li fissavano con uno sguardo privo di vita”, ma in genere è andata meglio di così, e ci sono tutte le lunghe villeggiature degli impressionisti, le loro residenze annuali in campagna, al mare, ovunque, a dimostrarcelo.


E con Proust una stagione dava la mano a quella successiva e c’era tempo per capire, conoscere e approfondire tutto


 

Se qualcuno ci dovesse chiedere quale dipinto rappresenti per noi la villeggiatura, sarebbero proprio le “Donne in giardino” di Claude Monet con i loro abiti bianchi alleggeriti dalle picchiettature in bianco ottico del pittore a imitare la luce del sole che vi batte sopra, il quadro che anticipa la pittura en plein air della rivoluzione impressionista ma anche i gesti della rilassatezza tipica delle pause temporali: la ragazza che aggiusta i fiori raccolti in un mazzolino, quella che rincorre qualcosa o qualcuno, forse un bambino piccolo sfuggito al controllo e infatti ha già le braccia tese.

 

Oddìo, in sé la villeggiatura non sarebbe necessariamente estiva, ipoteticamente si potrebbe villeggiare in qualunque momento dell’anno; però il Novecento, con il suo rimpicciolimento progressivo, ha avuto ragione anche del lessico di un tempo, specchio di tempi e di modelli familiari passati. La villeggiatura era la dimensione adatta per quelle piccole tribù che incorporavano diverse età della vita, classi sociali differenti, una fitta rete di conoscenze e, naturalmente, diversi luoghi di residenza per periodi lunghi, in cui trasferirsi tutti insieme e in particolare la rappresentanza femminile, dalla nonna alla tata, mentre gli uomini potevano anche tornare in città, con il loro “carico leggero”, una valigia di cuoio e poco più, e magari alternare il soggiorno fra la residenza estiva e quella di città compiendo il tragitto in bicicletta, “direttamente da via Celoria”, cioè dalla facoltà di Medicina, una delle epiche imprese del babbo che faceva parte della nostra piccola epopea familiare.


Qualcuno le ha vendute, le villone, altri le hanno frazionate tenendo un piano per sé. In questi mesi sono tutte tornate ad aprirsi 


 

Fino all’anno domini coronavirus, nessuno si sarebbe sognato di pronunciare il sostantivo di “villeggiatura”, se non con obiettivi autoironici, pronti a essere scherniti come lassisti, sibariti, goderecci. Chi mai sarebbe partito per la villeggiatura se non gente che non aveva un accidente da fare? La misura dell’efficienza anni Ottanta era la vacanza invernale, quella dei film di Vanzina (no, non vi ripeteremo la solita battuta del Dogui e di Adriana col “tic”); quella del nuovo millennio era il “long weekend”, il fine settimana lungo da trascorrere preferibilmente in un centro benessere dove ci si vantava di essere stati “rimessi al mondo”, cioè di essere stati privati del cellulare e costretti a digiunare, bere tisane e dormire, tutte cose che si sarebbero potute fare agevolmente a casa propria, se solo si fosse trovato il tempo e la voglia. Adesso, un po’ di tempo ci è stato concesso e i centri benessere sono quasi tutti chiusi. Si può andare a occupare quella sedia in giardino col cappello di paglia, che ci tiene il posto.

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