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Il mio romanzo liberale

Annalena Benini

Considera il rinoceronte. Manifesto di libertà reale e sentimentale per migliorare il mondo un passo alla volta, restando connessi gli uni con gli altri. La sacra libertà di dibattito e la filosofia di Elizabeth Bennet

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Robinson Crusoe vive per dodici anni in un perfetto isolamento sull’isola che crede deserta. Si costruisce un fortino, coltiva la terra, si veste con le pelli delle capre selvatiche, tiene la contabilità, segna le tacche un giorno dopo l’altro per non perdere la cognizione del tempo e pianifica il futuro. Usa l’intelligenza e quando incontra un essere umano in difficoltà lo salva e lo trasforma in suo servitore. Naufragi, coraggio, grandi azioni, senso pratico, lieto fine da ricconi e serena vecchiaia. Dovendo scegliere un eroe, durante l’infanzia, Robinson Crusoe era perfetto. L’impresa individuale, il libero arbitrio, la solidità intellettuale: il manifesto dell’uomo liberale era un grande romanzo d’avventura, e se io mi annoiavo davanti alle pelli di capra e alle tempeste caraibiche era forse perché sono una femmina e cercavo la storia d’amore. In realtà cercavo i dialoghi, le relazioni tra i personaggi, un bel litigio che facesse muovere la storia, fraintendimenti e tormenti e sì certo, anche l’amore. Non ero abbastanza liberale? Andavo in cerca di unicorni e schifavo le capre, schifavo la realtà? Del resto anche Tom Hanks chiacchiera, litiga e si confida con un pallone in “Cast away” (Wilson, cioè il nome della marca del pallone) e non lo tratta da servitore come invece fa Robinson con Venerdì. E’ più emozionante Wilson di Venerdì: l’uomo liberale nei suoi rapporti umani è dunque così incredibilmente noioso, evidentemente, e il liberalismo è poco seducente: tutta questa contabilità e tutte queste pelli di capra. Con la ragione non posso che ammirare Robinson Crusoe e il suo temperamento, con il sentimento cerco la commozione altrove e scappo da questa solitudine orgogliosa, allo stesso modo in cui tra la cicala e la formica ho sempre preferito la cicala, e fuggito come la peste le prediche della formica.

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Robinson Crusoe vive per dodici anni in un perfetto isolamento sull’isola che crede deserta. Si costruisce un fortino, coltiva la terra, si veste con le pelli delle capre selvatiche, tiene la contabilità, segna le tacche un giorno dopo l’altro per non perdere la cognizione del tempo e pianifica il futuro. Usa l’intelligenza e quando incontra un essere umano in difficoltà lo salva e lo trasforma in suo servitore. Naufragi, coraggio, grandi azioni, senso pratico, lieto fine da ricconi e serena vecchiaia. Dovendo scegliere un eroe, durante l’infanzia, Robinson Crusoe era perfetto. L’impresa individuale, il libero arbitrio, la solidità intellettuale: il manifesto dell’uomo liberale era un grande romanzo d’avventura, e se io mi annoiavo davanti alle pelli di capra e alle tempeste caraibiche era forse perché sono una femmina e cercavo la storia d’amore. In realtà cercavo i dialoghi, le relazioni tra i personaggi, un bel litigio che facesse muovere la storia, fraintendimenti e tormenti e sì certo, anche l’amore. Non ero abbastanza liberale? Andavo in cerca di unicorni e schifavo le capre, schifavo la realtà? Del resto anche Tom Hanks chiacchiera, litiga e si confida con un pallone in “Cast away” (Wilson, cioè il nome della marca del pallone) e non lo tratta da servitore come invece fa Robinson con Venerdì. E’ più emozionante Wilson di Venerdì: l’uomo liberale nei suoi rapporti umani è dunque così incredibilmente noioso, evidentemente, e il liberalismo è poco seducente: tutta questa contabilità e tutte queste pelli di capra. Con la ragione non posso che ammirare Robinson Crusoe e il suo temperamento, con il sentimento cerco la commozione altrove e scappo da questa solitudine orgogliosa, allo stesso modo in cui tra la cicala e la formica ho sempre preferito la cicala, e fuggito come la peste le prediche della formica.

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So che i liberali hanno quasi sempre ragione, e che nessun vero liberale mi impedirebbe mai di dire quello che penso, e che mi difenderebbe anche se non è d’accordo con me, e si impegnerebbe a smantellare con il dibattito razionale i dogmi (spesso seducenti come unicorni) che si sono impadroniti del mio cervello, e penso anche che aiuterebbe la cicala a passare un buon inverno (nessuno è insopportabilmente stronzo quanto la formica) e le farebbe un contratto di convivenza, ma dove sono i sentimenti, l’eccitazione della libertà, il batticuore, l’ideale di miglioramento del mondo?

 

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Grazie a uno dei miei scrittori americani preferiti, Adam Gopnik, che dagli anni Ottanta racconta il mondo, le persone e i sentimenti sul New Yorker e nei suoi libri, ho ricevuto l’illuminazione di cui avevo bisogno per riconsiderare il rinoceronte – cioè il liberalismo.


Robinson Crusoe, le pelli di capra e “Il manifesto del rinoceronte. L’avventura del liberalismo” (Guanda) di Adam Gopnik


 

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Rinoceronte perché è un animale tozzo, sgraziato, per niente ideale e lieve e fatato come un unicorno, piuttosto un maiale con un corno sulla fronte, ma assolutamente possibile, rugoso e forte: disposto al progresso, progressista. Disposto al compromesso con la realtà, perché reale e quindi imperfetto. Credere nel rinoceronte significa impegnarsi per realizzare la libertà, non semplicemente invocarla o farne la materia di un rituale magico con unicorni volanti, scrive Adam Gopnik nel suo saggio (ma i suoi saggi non sono mai soltanto saggi: sono letteratura della realtà, con l’anima bene in vista).

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Poiché ritengo che gli esseri umani siano infinitamente più interessanti degli unicorni, e in ogni caso più vicini a me, la seduzione del rinoceronte è avvenuta attraverso Jane Austen: scrive Gopnik che il modello della persona liberale non somiglia tanto a un Robinson Crusoe solitario e puzzolente di capra, quanto a Elizabeth Bennet di Orgoglio e pregiudizio, che trascorre ogni giorno dentro una struttura famigliare ineludibile e ovviamente imperfetta, piena di tic e anche di tentativi di oppressione, dentro un particolare terreno sociale, e cerca di migliorare la propria condizione e di conquistarsi un nuovo ruolo e più libertà, negoziandolo ogni giorno (tutti quei dialoghi meravigliosi!) con intelligenza, ragionamento e sense of humour. Io direi anche: coraggio e forza morale.

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Il liberalismo è un’avversione nei confronti della crudeltà, del fanatismo. “Nessun essere umano è illegale”


 

“C’è della testardaggine in me che non mi consente di farmi intimidire dal prossimo. Il mio coraggio anzi aumenta a ogni tentativo di spaventarmi”, dice Elizabeth, l’eroina più simpatica di tutta la letteratura, fiera di avere sempre qualcosa da desiderare, capace di cambiare idea e di ammettere i suoi fraintendimenti, consapevole che niente è perfetto e che sua madre è insopportabile e vacua, e che Lady Catherine, la zia di Darcy, farà di tutto per boicottare la sua ricerca di felicità. Elizabeth è giovane e romantica ma molto realistica: vuole il lieto fine per il maggior numero di persone possibile, vuole il miglioramento dell’esistenza e il superamento dei risentimenti. La sua avventura non è soltanto materiale (un buon matrimonio con “uno scapolo provvisto di un ingente patrimonio”, nell’Ottocento), la sua avventura è anche morale. “L’avventura morale del liberalismo” è il sottotitolo originale del libro di Adam Gopnik, appena pubblicato da Guanda con la traduzione di Isabella C. Blum, ma in italiano hanno deciso di intitolarlo: “Il manifesto del rinoceronte, l’avventura del liberalismo”, e il rinoceronte è diventato per Gopnik evocativo di questo movimento di pensiero e azione etico politica: il rinoceronte, come il liberalismo, è goffo da vedere, difficile da amare, privo di slogan desiderabili, ma è anche il simbolo di un grande amore: il magnifico e struggente sodalizio liberale e sentimentale che unì John Stuart Mill, filosofo ed economista inglese del Diciannovesimo secolo, uno dei massimi esponenti del liberalismo (ha scritto il fondamentale saggio Sulla libertà, a tredici anni studiò Adam Smith e cambiò il resto della sua vita – e della nostra) e Harriet Taylor, scrittrice, filosofa, femminista liberale, collaboratrice di Mill e innamorata (anche moglie, negli ultimi sette anni della vita di lei).

 

Questa storia merita di essere raccontata, anche a dimostrazione del fatto che sono i liberali ad aver costruito il liberalismo, in una connessione continua gli uni con gli altri, connessione fondata sul movimento in avanti del pensiero e delle azioni: John Stuart Mill e Harriet Taylor si conobbero e si innamorarono perdutamente, ma lei era sposata a un uomo qualunque, un farmacista che l’amava molto, perché lei aveva tutto per essere amata. Mill e Taylor si incontravano in segreto, pieni di tormenti e di desiderio di parlare di tutto, con la sensazione che il tempo volasse via sempre troppo veloce. Per non essere osservati, si incontravano allo zoo di Londra, accanto alla gabbia del rinoceronte. “Il nostro vecchio amico Rhino”, scrisse Harriet Taylor in un biglietto. Dalle loro conversazioni nacque il materiale di Sulla libertà di Stuart Mill, pubblicato nel 1859, quando lei era morta da un anno, per il quale lui sempre la ringraziò pubblicamente (“di tutto ciò che porta il mio nome, questa è stata l’opera la cui produzione ha visto la nostra più grande collaborazione”) e anche Sull’asservimento delle donne, forse il primo manifesto femminista, che cambiò tutta la storia successiva: affermava l’assoluta parità delle donne, l’assoluta libertà di linguaggio, idee che in quel momento sembrarono completamente folli, ma che non fu più possibile ignorare. Taylor e Mill credettero, prima di chiunque altro, nella completa parità fra uomini e donne, e applicarono al grande amore della vita, il loro, un atteggiamento liberale che tenne conto continuamente della coscienza morale e del dolore degli altri. Harriet Taylor restò sposata a suo marito, che non voleva rinunciare a lei, e lo assistette fino alla morte, rinunciò a una parte di felicità per non provocare troppa infelicità, e perché nessun essere vivente è ideale, nessun uomo è perfetto, nessuna condizione è assoluta, e nessuno di noi è sganciato dagli altri e dal loro dolore. L’amore ci trascina verso la libertà, ma anche verso la connessione con gli altri: la loro storia romantica fu un compromesso, ma un compromesso romantico che teneva conto della realtà e dell’intima contraddizione degli esseri umani. Vissero calati nell’imperfezione della realtà proprio mentre la stavano cambiando. Quella vita proficua e appassionata non fu un unicorno, perfetto e inesistente, fu il rinoceronte che vegliava Harriet Taylor e Stuart Mill dalla sua gabbia, mentre loro pronunciavano parole d’amore e di cambiamento.


“La testardaggine non mi consente di farmi intimidire dal prossimo”, dice Lizzy Bennet in “Orgoglio e Pregiudizio”


 

Già negli anni Trenta dell’Ottocento Harriet Taylor aveva scritto, a proposito delle donne: “Il più insignificante degli uomini, l’uomo che non può ottenere alcuna influenza o considerazione altrove, trova un luogo dove è capo e comandante. C’è una persona, spesso intellettualmente superiore a lui, che è obbligata a consultarlo e che lui non è obbligato a consultare”: in quello stesso periodo Mill e Taylor si incontrarono, e lui oltre ad amarla la ascoltò, da uomo liberale, e disse che la sua mente penetrava nel cuore e nell’essenza delle cose, afferrando sempre il principio essenziale, e grazie a lei, Mill arricchì, modificò e migliorò il suo pensiero. Fece passi in avanti, e così lei con lui, grazie alla libertà di dialogo, di discussione, di dibattito, e sempre attraverso una formula in cui l’umanesimo, cioè la considerazione delle condizioni degli esseri umani e delle loro differenze, e anche dei loro sentimenti, contro le prevaricazioni del potere, viene prima di tutto: ecco l’essenza del liberalismo. “Chiederci sempre quale sia la migliore possibilità reale, e non la suprema fantasia ideale”. Per costruire un mondo meno crudele, ma certo non violentemente perfetto secondo la coscienza morale di alcuni.

 

“Che cos’è il liberalismo, allora? Un’avversione nei confronti della crudeltà”, quindi anche nei confronti del dogmatismo e del fanatismo. Se si è disposti a mettere in discussione il proprio dogma, se ci si appella al ragionamento, se si vuole andare avanti senza rivoluzioni cieche (quasi mai una riforma efficace ha luogo perché grandi idee si diffondono rapidamente e rivoluzionano la vita), e sì, anche se si preferisce la compassione alla giustizia, si è liberali. Se ci si sente intimamente, eternamente in conflitto con le tendenze totalitarie della sinistra e con le brutalità autoritarie della destra. Adam Gopnik, dopo aver raccontato di David Hume, di George Eliot (la grande scrittrice inglese, anche lei protagonista di un grande amore liberale) e di tutti gli altri pensatori liberali, parla di “mille piccoli atti di saggezza”, e certo molti trovano più divertenti e più desiderabili gli unicorni.


L’amore ci trascina verso la libertà, ma anche verso la connessione con gli altri. La storia di John Stuart Mill e Harriet Taylor 


 

Ma ci sono cose troppo importanti per darle per scontate e dimenticarcene. “Nessun essere umano è illegale”, e la libertà di parola è un principio quasi sacro. C’è stato un tempo illiberale in cui sostenendo le nostre posizioni avremmo messo a rischio la vita (patibolo, squartati in pubblico, fucilati, gettati nelle fosse, deportati). C’è stato un tempo in cui qualcun altro ha conquistato la nostra libertà di dire eresie che poi il tempo e la storia hanno trasformato in ovvietà. Non torneremo laggiù, ma non torneremo nemmeno sull’isola semideserta di Robinson Crusoe a costruirci un fortino solitario, dentro il quale abbiamo sempre ragione e diciamo sempre la cosa più giusta, e siamo anche i più ricchi. Faremo invece come Elizabeth Bennet: “Ma è comunque una vera fortuna avere ancora qualcosa da desiderare”, per cercare con tutte le forze umane di raggiungerlo, senza fermarci e senza tornare indietro.

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