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La foto non è social

Maurizio Fiorino

Instagram ha trasformato la fotografia, ma il suo ruolo nell’arte resta immutato. La lezione di Vogue e il linguaggio da decifrare

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"E’ ancora possibile la poesia?” si domandò a un certo punto Eugenio Montale negli anni Settanta, fresco di Nobel, mentre, negli stessi anni, oltreoceano, a Richard Avedon veniva chiesto di fotografare l’intero quadro politico dell’epoca – dal presidente Ford ai banchieri, dagli editori a “tutte le forze che contribuiscono alla formazione dell’America”. Un lavoro monumentale, custodito al Metropolitan di New York. Quattro anni dopo, la fotografa Annie Leibovitz scattò l’ultima fotografia di John Lennon vivo, disteso a terra e nudo, abbracciato a Yoko Ono. Quell’immagine, pubblicata sulla copertina di Rolling Stone, diventò leggenda. Consacrò la Leibovitz, a lungo compagna di una delle più celebri filosofe d’America dello scorso secolo, Susan Sontag (che sul mondo dell’immagine scrisse tanto e meglio di chiunque altro, prima sul New Yorker, poi in un saggio, “Sulla fotografia”, Einaudi). Pochi anni dopo, la Fuji mise in vendita la prima macchina usa-e-getta della storia, così tutti, ma proprio tutti, ebbero la possibilità di mettersi in gioco e giocare con quel marchingegno che Baudelaire, strenuo difensore dell’arte pittorica, un secolo prima aveva classificato osceno, “un rifugio di tutti i pittori mancati, scarsamente dotati o troppo pigri per compiere i loro studi”. Insomma, tra poco la fotografia compirà due secoli e chissà se, pur nelle sue più rosee e stravaganti aspettative, Daguerre avrebbe mai sospettato che i suoi esperimenti si sarebbero trasformati in una serie di fotografie a prova di filtro di Instagram. In tempi di social, è ancora possibile la fotografia?

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"E’ ancora possibile la poesia?” si domandò a un certo punto Eugenio Montale negli anni Settanta, fresco di Nobel, mentre, negli stessi anni, oltreoceano, a Richard Avedon veniva chiesto di fotografare l’intero quadro politico dell’epoca – dal presidente Ford ai banchieri, dagli editori a “tutte le forze che contribuiscono alla formazione dell’America”. Un lavoro monumentale, custodito al Metropolitan di New York. Quattro anni dopo, la fotografa Annie Leibovitz scattò l’ultima fotografia di John Lennon vivo, disteso a terra e nudo, abbracciato a Yoko Ono. Quell’immagine, pubblicata sulla copertina di Rolling Stone, diventò leggenda. Consacrò la Leibovitz, a lungo compagna di una delle più celebri filosofe d’America dello scorso secolo, Susan Sontag (che sul mondo dell’immagine scrisse tanto e meglio di chiunque altro, prima sul New Yorker, poi in un saggio, “Sulla fotografia”, Einaudi). Pochi anni dopo, la Fuji mise in vendita la prima macchina usa-e-getta della storia, così tutti, ma proprio tutti, ebbero la possibilità di mettersi in gioco e giocare con quel marchingegno che Baudelaire, strenuo difensore dell’arte pittorica, un secolo prima aveva classificato osceno, “un rifugio di tutti i pittori mancati, scarsamente dotati o troppo pigri per compiere i loro studi”. Insomma, tra poco la fotografia compirà due secoli e chissà se, pur nelle sue più rosee e stravaganti aspettative, Daguerre avrebbe mai sospettato che i suoi esperimenti si sarebbero trasformati in una serie di fotografie a prova di filtro di Instagram. In tempi di social, è ancora possibile la fotografia?

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Alessia Glaviano fa parte della famiglia Vogue da vent’anni. Ne è stata a lungo photo editor – la domanda più frequente sui WhatsApp di buona parte dell’ultima generazione di fotografi è questa: “le hai mandate le foto alla Glaviano? Cosa ha risposto? Le sono piaciute?” – e adesso ha in mano la gestione di tutto ciò che riguarda l’intera immagine del gruppo. Ha ideato e diretto il Vogue Photo Festival, giunto quest’anno alla quinta edizione e che “sì, si farà”. E’ anche un’attivista. Non concepisce il lavoro senza impegno politico – e secondo lei l’impegno politico è una sorta di attivismo da mettere in pratica dal luogo di lavoro in poi. “Non ho fatto tutto da sola” ci tiene a precisare. “Faccio parte di un team e ho avuto la fortuna di crescere con Franca Sozzani, una grande, anche nel capire che la fotografia di moda è un linguaggio e che, attraverso di essa, si possono comunicare diversi temi”.


“L’industria fotografica cambia e basta, come tutte le altre forme d’arte. Semmai acquisisce nuove funzioni, si evolve”, dice Glaviano


 

Chiedere a lei, la Glaviano, a che punto è la fotografia ai tempi dei social, significa partire da un punto e toccarne cento al minuto. Infatti, quando le domando provocatoriamente se tutta questa sovraesposizione di immagini non sia, paradossalmente, il principio di una crisi del mezzo fotografico, le viene da ridere. “Certo che no. Ogni tanto viene fuori questa storia, ma l’industria fotografica cambia e basta, come tutte le altre forme d’arte. Semmai, acquisisce nuove funzioni col tempo, si evolve. Il fatto è che se prima si fotografava per fermare delle immagini che avevano necessità di diventare memoria, o semplicemente delle foto d’arte, oggi la fotografia ha anche un ruolo di dialogo. Voglio dire che funziona non tanto da sola, ma nell’insieme delle altre foto. E’ un po’ come la scrittura”, dice. “Puoi scrivere, che so, la lista della spesa, o un romanzo. L’una non toglie niente al secondo. Semmai, in qualche modo, aggiunge. Questa contaminazione di generi c’è sempre stata, con dei risultati, tra l’altro, eccezionali”. Un esempio? “Stephen Shore, che ha anticipato Instagram e l’ha fatto in un’epoca, gli anni Settanta, in cui le foto belle, consentimi il termine, erano principalmente in bianco e nero. Lui decise di girare l’America e di fotografare tutto quello che era nel suo campo visivo così com’era, a colori, senza troppi fronzoli, anticipando non solo le foto che vediamo sui social ma, di fatto, la fotografia intesa come conversazione”.

 

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Facciamo un passo indietro. Luigi Ghirri, nel 1989, disse che “un tempo l’avvenimento non si vedeva se non attraverso la fotografia di reportage. Gli spettatori o i lettori erano disposti ad aspettare una settimana per vedere pubblicate le fotografie di eventi accaduti sette giorni prima. Oggi questo è assolutamente impensabile” (piccola parentesi: questo e altri scritti di Ghirri sono stati raccolti nel prezioso volume pubblicato da Quodlibet. Si intitola “Lezioni di fotografia”). Oggi, si sa, mentre l’evento accade, è già sugli schermi dei nostri smartphone. E se questo creasse una sorta di assuefazione dell’immagine, di fatto, depotenziandola? “E’ un discorso che si potrebbe sviluppare per ore e ore”, risponde Glaviano. “Il concetto, riesumando per l’appunto la Sontag, è che, correndo il rischio di abituarsi davanti a un certo tipo di fotografia, si esaurisca la capacità di provare qualcosa, e quindi l’immagine diventa solo un voyeurismo del dolore altrui. Sulla fotografia ai tempi dei social media è complicato avere un’opinione che sia al cento per cento chiara. Tanto, dipende dalla soggettività. Penso ci sia una certa forma d’abitudine, certo, ma come in tutte le cose. Pensa a qualche mese fa: chi avrebbe mai pensato di indossare una mascherina prima di uscire di casa? La stessa identica cosa accade con le immagini”, spiega. “Ricordi il delirio scatenato dalla fotografia di Alan Kurdi? Dopo quella foto, altre, simili, sono passate quasi inosservate, come se la sovraesposizione di quel tipo d’immagine avesse alzato l’asticella della percezione di ciò che riusciamo a vedere. Ciò non toglie che continua a essere fondamentale raccontare le storie in tutti i modi possibili. Anche perché, lo sai bene, se prendi dieci persone e chiedi loro di fotografare lo stesso angolo di strada, avrai dieci immagini diverse. Sai forse qual è il problema?”, mi domanda poi. “C’è molta analfabetizzazione visuale”.

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La copertina di Uomo Vogue dedicata all’equipaggio dell’Accursio, il peschereccio che salvò 50 migranti in Sicilia


 

Una teoria analoga l’ha espressa nero su bianco anche Fred Ritchin, decano dell’International Center of Photography di New York e uno dei massimi esperti di immagine al mondo. Il suo saggio, “Dopo la fotografia”, è stato pubblicato in Italia da Einaudi qualche anno fa. “Fred ha preconizzato l’importanza dei curatori del web”, spiega Glaviano. “Il concetto è semplice: se uno sceglie di leggere il New York Times o la Bbc, o semplicemente di seguire un giornalista su Twitter poiché lo trova autorevole, lo stesso principio dovrebbe valere per la fotografia. Mentre studiamo la grammatica sin da piccoli e, nel bene o nel male, cresciamo in un tipo di cultura in cui il linguaggio viene spaccato in mille parti e analizzato pezzo per pezzo, l’immagine non si studia. Nessuno, a scuola, ti dice come leggere una foto. E invece è fondamentale. Se ci pensi, cosa fai con una fotografia se non prendere un mondo tridimensionale, in movimento, e schiacciarlo su una superficie piatta? Quello fotografico, insomma, dovrebbe essere un linguaggio da decostruire e decifrare”.

 

In Italia, nonostante la cultura fotografica centenaria, non esiste una Maison Européenne de la Photographie, come a Parigi, o un C/O di Berlino, un Fografiska, come a Stoccolma e New York. Esistono poche ma eccellenti realtà, come Camera, a Torino, o lo spazio Forma di Milano. “Aggiungo l’Osservatorio di Prada e il Pac. In Italia abbiamo fotografi pazzeschi. Poi, a dirla tutta, c’è un problema dal punto di vista istituzionale”, dice Glaviano. E un altro, grosso, problema, riguarda il mestiere del photo editor, una professione giovane e ancora poco conosciuta e praticata. “Nei quotidiani non è ancora chiaro quanto sia fondamentale il ruolo del photo editor. L’immagine è importante quando la grafica. Il discorso è sempre il solito: un divario enorme, inspiegabile, tra la realtà di quello che succede sul territorio e la realtà percepita da chi prende le decisioni. Un bravo photo editor deve, innanzitutto, capire l’estetica del giornale e poi scegliere le fotografie che hanno un senso in quel contesto. Personalmente, quello che mi ha sempre guidato sin dall’inizio della mia carriera, è stata la necessità cercare di coniugare etica ed estetica, cioè avere delle immagini che potessero essere esteticamente potenti e allo stesso tempo cariche di significato. Un’immagine deve essere bella e per bella non intendo armonica, ma forte, deve avere un messaggio. Il gusto privato è un’altra cosa”. Quindi una foto brutta, ma scattata nel momento giusto, può diventare un’immagine importante? “Esiste anche un brutto che è ricercato ad arte. La sciatteria è un’altra cosa”, taglia corto Glaviano. “Se ci pensi, le foto più iconiche degli ultimi vent’anni sono fotografie che di sicuro non erano state scattate con un senso estetico. Penso alle foto delle torture di Abu Ghraib. Nonostante siano immagini amatoriali, sono riuscite a spezzare dei codici”.


Oggi mentre un evento accade è già sui nostri smartphone. Questo può creare una sorta di assuefazione all’immagine, depotenziandola


 

 

Anche Vogue, negli ultimi anni, è riuscita a spezzare dei codici. Basta pensare al numero tutto nero, ovvero il celebre black issue che la Sozzani pubblicò nel 2008, utilizzando solo modelle di colore. O, senza andare troppo lontano, a una delle copertine de l’Uomo Vogue di qualche mese fa, dedicata all’equipaggio dell’Accursio, il peschereccio che l’estate scorsa, nel pieno delirio dei decreti sicurezza di Salvini, salvò 50 migranti al largo delle coste siciliane. L’autrice dello scatto, Roselena Ramistella, è una giovane fotografa di Gela. “Non è stato facile mettere insieme tutti i pescatori per fotografarli. Sono degli eroi. Hanno agito non come macchine, seguivano un’idea, se ne fottevano delle leggi e del sistema”, dice. “E poi sono uomini di mare, gente libera. Oltre alla copertina, che certo fa piacere, mi ha colpito che una rivista di moda abbia trattato delle tematiche tanto importanti quanto scomode. Soprattutto in quel periodo e in quel contesto politico. E’ stato rivoluzionario. Se una fotografia racconta la verità, mette in discussione il tuo pensiero”, dice la fotografa siciliana.

 

“Io credo fermamente nell’immagine che diventa attivismo”, continua Alessia Glaviano. “Una foto può, anzi deve, cambiare lo sguardo delle persone. Sono cresciuta con quest’idea. Non credo nelle divisioni e, a mio parere, chi se ne frega se una foto è in un museo o in un giornale di moda? Anzi, attraverso il giornale di moda arrivi a più persone. Quindi, anche se in maniera sottile, attraverso il mio lavoro posso prendere delle posizioni importanti. Che alla fine, ovvio, sono anche politiche. Da anni sto portando avanti una lotta sul concetto di diversità. Dobbiamo essere più inclusivi. Vedi quello che sta accadendo oggi negli Stati Uniti, con la morte di George Floyd”.


“Se uno sceglie di leggere il New York Times o la Bbc perché li trova autorevoli, lo stesso principio dovrebbe valere per la fotografia” 


Mentre ci avviamo a concludere la nostra chiacchierata, dall’America arrivano le immagini delle rivolte di Black Lives Matter. “Ecco il risultato di un razzismo sistemico che esiste da sempre. Devo dire, però, che non ho mai visto una partecipazione globale così forte e anche un desiderio, se vuoi, da parte di istituzioni e privati, di cambiare lo sguardo e la testa delle persone”. Le domando cosa può e deve fare il mondo della moda, per sostenere questa battaglia. “E’ importante che adesso siano i black a documentare tutto quello che sta accadendo. E’ il loro momento. Quello che possiamo fare, noi, è far cadere definitivamente le barriere che esistono nel mondo del lavoro. Trovare fotografi e curatori black, innanzitutto, dar loro tutto lo spazio di cui hanno bisogno. Dobbiamo farlo sul serio, non col tokenismo”, conclude Glaviano, citando quella pratica di inclusione che si mette in atto reclutando un piccolo numero di persone di gruppi sottorappresentati con l’unico fine di dare un’apparenza di uguaglianza razziale o sessuale all’interno di un gruppo di lavoro. “E posso aggiungere un’ultima cosa? Non è vero che noi italiani non siamo razzisti. Vale forse la pena ricordare come trattiamo gli immigrati, oppure gli omicidi a sfondo razziale, quello che dicono alcuni politici e la battaglia sullo Ius soli? Guardiamoci dentro. Non fermiamoci all’America”.

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