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Ennio Morricone, genio inclassificabile e imprendibile che non sapeva immaginarsi lontano da Roma

Andrea Minuz

Una malinconia molto romana il compositore l’ha sparsa un po' ovunque nella sua opera, muovendosi con la disinvoltura del funambolo tra le barricate di una cultura che separa “alto” e “basso”

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Il New York Times ci ha tenuto a rimarcare che Ennio Morricone non sapeva l’inglese, non prendeva l’aereo, non si è mai mosso da Roma e in America ci andò per la prima volta nel 2006, a settantotto anni. Ma a Roma Morricone stava benissimo. Aveva uno splendido attico sopra via dell’Ara Coeli, vista panoramica sul Campidoglio, praticamente un’inquadratura in campo lungo di un western di Sergio Leone, con la statua di Marco Aurelio a cavallo al posto del bounty killer che avanza solitario nella valle. A casa c’era anche un salotto privato con maxischermo, attrezzatissimo per guardare in solitudine le partite della Roma. Niente scenate in pubblico, gestacci, imprecazioni che avrebbero potuto tradire la sua immagine impeccabile, seria, taciturna, concentrata soltanto sui misteri della musica. “Una volta il produttore Dino De Laurentiis mi offrì una villa bellissima a Los Angeles”, raccontava spesso, “ma rifiutai. Non avrei mai potuto abbandonare Roma. E’ la città dove sono nato, dove sono cresciuto, a cui si legano moltissimi ricordi. Credo che non potrei vivere in nessun’altra città del mondo”.

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Il New York Times ci ha tenuto a rimarcare che Ennio Morricone non sapeva l’inglese, non prendeva l’aereo, non si è mai mosso da Roma e in America ci andò per la prima volta nel 2006, a settantotto anni. Ma a Roma Morricone stava benissimo. Aveva uno splendido attico sopra via dell’Ara Coeli, vista panoramica sul Campidoglio, praticamente un’inquadratura in campo lungo di un western di Sergio Leone, con la statua di Marco Aurelio a cavallo al posto del bounty killer che avanza solitario nella valle. A casa c’era anche un salotto privato con maxischermo, attrezzatissimo per guardare in solitudine le partite della Roma. Niente scenate in pubblico, gestacci, imprecazioni che avrebbero potuto tradire la sua immagine impeccabile, seria, taciturna, concentrata soltanto sui misteri della musica. “Una volta il produttore Dino De Laurentiis mi offrì una villa bellissima a Los Angeles”, raccontava spesso, “ma rifiutai. Non avrei mai potuto abbandonare Roma. E’ la città dove sono nato, dove sono cresciuto, a cui si legano moltissimi ricordi. Credo che non potrei vivere in nessun’altra città del mondo”.

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Niente Hollywood per Morricone; niente Milan, Real Madrid o Manchester United per Totti. La solita vecchia malìa che rende i romani incapaci di immaginarsi altrove. D’altronde, solo qualcuno che conosce così bene Roma poteva tradurre in un fischio di poche note tutta la malinconia dell’estate romana, quella di “Un sacco bello”, esordio di Carlo Verdone, prodotto da Sergio Leone, musiche di Morricone. Quel fischio è Roma ad agosto, le strade vuote, le due del pomeriggio, l’asfalto rovente, le cicale, una fetta di “cocomero”, qualcuno in canottiera affacciato alla finestra. Questa malinconia molto romana (che è l’altra faccia della sbruffoneria, del cinismo, del distacco), Morricone l’ha sparsa un po’ ovunque nella sua opera, muovendosi con la disinvoltura del funambolo tra le barricate di una cultura che separa “alto” e “basso”, pop e impegno, film di genere e avanguardia. E’ qui che il genio di Morricone si fa inclassificabile, irripetibile, imprendibile. 

 

 

Ci sono western italiani molto dimenticabili, fatti in fretta, tirati via, che oggi si ricordano solo per le musiche di Morricone. E ci sono le sue serissime composizioni sperimentali, pezzi astratti di musica “assoluta”, che si intitolano, “Epso”, “Neodisanto”, “Musiche per una fine”, “Ombre di lontana presenza”, persino “Tre scioperi”, per coro di trentasei voci bianche su sonetti di Pier Paolo Pasolini, di cui si ricorderanno e si ricordano in pochi. Il paradosso, la piccola frustrazione di Morricone era tutta qui. A un certo punto sperava anche che le sue celebri musiche da film diventassero il traino per scoprire l’opera del Morricone compositore di musica contemporanea, quello che aveva studiato con Goffredo Petrassi e frequentato i severi seminari estivi di Darmstadt, con la crème dell’avanguardia europea. Macché. Casomai si scopriva l’arrangiatore di “Se telefonando”, “Sapore di sale”, “Pinne, fucile ed occhiali”, “Abbronzatissima”, “Guarda come dondolo” (Morricone sta a Edoardo Vianello come Quincy Jones a Michael Jackson). Lasciandogli la parola capitava così che deludesse il cinefilo e il fan: “Non parlatemi di spaghetti western!”, “Per un pugno di dollari è una porcheria”, “la musica per il cinema l’ho scritta per pagare le bollette”. Ma anche pagare le bollette è un’arte. E Morricone lo sapeva benissimo. Anche se Tarantino che ai Golden Globe dice, “Morricone è meglio di Mozart e Beethoven” deve essergli sembrato un po’ scemo. Sono sparate lontane anni luce dallo spirito e dal modo di intendere la musica di Morricone. Casomai, la definizione migliore della sua opera l’ha data Sergio Leone, rivolgendosi a Verdone quando si trattò di scegliere le musiche di “Un sacco bello”: “Damme retta, Ennio sa fa’ tutto”.

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