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Croce e Einaudi, gli antitotalitari

Giuseppe Bedeschi

Le idee dei due filosofi, così distanti sul liberalismo, così simili nell’opporsi a fascismo e comunismo

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Alla fine degli anni Venti e nel corso degli anni Trenta del Novecento si svolse, fra le due principali personalità del pensiero liberale italiano, Benedetto Croce e Luigi Einaudi, un confronto sul significato e l’essenza del liberalismo. Questo confronto ebbe una grande rilevanza non solo sul piano della storia delle idee, ma anche sul piano politico. Si era, infatti, in pieno fascismo, e sia Croce sia Einaudi erano antifascisti. Le loro concezioni (espresse da Croce sulla sua rivista “La critica”, e da Einaudi sulla sua rivista “La riforma sociale”, soppressa dal regime nel 1935) erano punti di riferimento preziosi di ristrette élite intellettuali, che non si erano arrese al fascismo trionfante, e che nelle opere di Croce e di Einaudi trovavano il loro nutrimento etico-politico.

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Alla fine degli anni Venti e nel corso degli anni Trenta del Novecento si svolse, fra le due principali personalità del pensiero liberale italiano, Benedetto Croce e Luigi Einaudi, un confronto sul significato e l’essenza del liberalismo. Questo confronto ebbe una grande rilevanza non solo sul piano della storia delle idee, ma anche sul piano politico. Si era, infatti, in pieno fascismo, e sia Croce sia Einaudi erano antifascisti. Le loro concezioni (espresse da Croce sulla sua rivista “La critica”, e da Einaudi sulla sua rivista “La riforma sociale”, soppressa dal regime nel 1935) erano punti di riferimento preziosi di ristrette élite intellettuali, che non si erano arrese al fascismo trionfante, e che nelle opere di Croce e di Einaudi trovavano il loro nutrimento etico-politico.

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Il filosofo napoletano e l’economista piemontese ebbero, come detto, una vivace discussione, che mise in evidenza la loro divergenza circa l’essenza e il significato del liberalismo. In un articolo-saggio (pubblicato su “La riforma sociale” del marzo-aprile 1931) Einaudi citava una affermazione di Croce, che suonava così: se “il corso storico delle cose portasse al bivio o di danneggiare e scemare la produzione della ricchezza, conservando l’ordinamento capitalistico cioè della proprietà privata, o di garantire e aumentare la produzione, abolendo la proprietà privata […] il liberalismo non potrebbe se non approvare e invocare per suo conto quella abolizione”. E ciò perché, secondo Croce, fra liberalismo e ordinamenti economici non c’era un nesso immediato. Einaudi trovava questa affermazione crociana “spaventevole”, perché l’abolizione della proprietà privata avrebbe portato al comunismo, e in una società comunista “non possono esistere forze indipendenti. Una sola deve essere la volontà la quale dirige e fissa la produzione e la distribuzione dei beni economici”. Ma una società governata da una volontà unica, espressione di un gruppo o di un partito politico, è una società totalitaria.

 

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Sul confronto Einaudi-Croce a proposito del liberalismo si sofferma Giancristiano Desiderio nel suo ultimo saggio (“Croce ed Einaudi. Teoria e pratica del liberalismo”, pp. 100, Rubbettino). In una ricostruzione lucida e appassionata del rapporto culturale e politico fra i due pensatori, Desiderio sottolinea più i motivi di convergenza e di consenso che non quelli di divergenza e di dissenso. E bisogna dire che l’autore ha parecchie frecce al suo arco. Infatti sia in Croce sia in Einaudi fermissimo è il rifiuto tanto del fascismo quanto del comunismo. Nell’epilogo della sua “Storia d’Europa nel secolo XIX” Croce ha scritto che in Russia il comunismo si è attuato “come una forma di autocratismo, che ha tolto al popolo russo anche quel non molto respiro mentale e di libertà, che pur possedeva o si procacciava sotto il precedente autocratismo czaristico”, e che la favola dell’abolizione dello stato “ha foggiato il più pesante degli stati che sia possibile mai concepire”.

 

Dice giustamente Desiderio che Croce e Einaudi diedero all’Italia del Novecento quella cultura antitotalitaria, ossia tanto antifascista quanto anticomunista, che farà sempre difetto alla cultura politica italiana. Questa loro convergenza apparirà in chiara luce nella politica italiana dopo la caduta del fascismo, quando essi daranno un contributo di prima grandezza. Croce, ormai vecchio ma sempre lucidissimo e pugnace, dalle sponde del Partito liberale (di cui divenne presidente) si batté contro ogni pericolo totalitario: combatté energicamente il “dissennato” Partito d’azione, che propugnava una “riforma sociale globale” la quale, se attuata, avrebbe travolto le istituzioni liberal-democratiche, distruggendo l’economia libera; intervenne più volte su Nenni (come risulta dai Taccuini crociani) perché non schiacciasse su Togliatti e sul Pci (di ubbidienza sovietica) il Partito socialista, il quale, a differenza del comunismo, era nato sul terreno del pensiero politico riformista (e se Nenni avesse reso autonomo il Psi dai comunisti, la politica italiana avrebbe avuto tutt’altro corso). Einaudi, a sua volta, fu l’artefice della ricostruzione economica liberale, in collaborazione con De Gasperi (il quale, in questo modo, fece cadere definitivamente lo storico steccato che divideva cattolici e laici). A questi uomini l’Italia deve di essere diventata una società libera e moderna, dopo oltre un ventennio di dittatura e di avventure irresponsabili.

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