Le venti ipotesi sul futuro dell'umanità che raccontano i suoi fallimenti (passati)

Marco Archetti

“Il giorno in cui tutto finisce”, un saggio meta-distopico

Doverosa precisazione prima di strapparsi i capelli: noi, qui, sposiamo Steven Pinker senza se e senza ma. Lo psicologo cognitivo e linguista di Harvard, nel suo bestseller del 2018 intitolato “Illuminismo adesso”, avversando ogni forma di catastrofismo da circoletto ecoperbenista a tutta borraccia, aveva scritto: “Nonostante mezzo secolo di panico, l’umanità non è avviata in modo irrevocabile al suicidio ecologico. Il timore di carenze di risorse è infondato. E lo è anche l’ambientalismo misantropo che vede gli esseri umani moderni come abietti saccheggiatori di un pianeta incontaminato”. Del resto, già ne “Il declino della violenza”, il professore aveva messo le cose in chiaro: basta catastrofismi, la violenza dell’uomo sull’uomo non solo non è cresciuta, ma è in crollo verticale, e quella che stiamo vivendo è con tutta probabilità l’epoca più pacifica della storia. Poi correggeva questa visione ragionevole e anti allarmista con un’osservazione ragionevole che un po’ di allarme, invece, lo metteva. “Certo, il progresso può sempre essere ribaltato”, constatava. “Basta un’idea sbagliata.”

 

Giuste o sbagliate che siano, le idee che alimentano le venti ipotesi di futuro approntate da Mike Pearl nel suo “Il giorno in cui tutto finisce” (Il Saggiatore, pp. 359, 24 euro), raccontano venti scenari, tutti possibili. Magari non completamente plausibili e dietro l’angolo (oppure, al contrario, già ampiamente in corso di sviluppo, e allora l’autore ne immagina l’iperbole, la curvatura paradossale), queste venti supposizioni hanno tratti riconoscibilissimi anche quando corteggiano la fantapolitica o la fantabiologia. Ed è così che un saggio meta-distopico, capace di prendersi gioco dei birignao della distopia, è capace anche di prenderci per il bavero, di costringerci a riflettere: non tanto su chi siamo e su dove stiamo andando, ma su cosa siamo stati e su cosa ci siamo illusi di essere quando ci siamo resi tanto fragili proprio nel momento in cui ci stavamo (stiamo?) raccontando il contrario. E’, insomma, la partitura del nostro fallimento – un fallimento di indubbio successo.

 

“Il giorno in cui tutto finisce” ha un titolo originario meno angoloso (“The Day It Finally Happens”) e il pregio di non essere né un’estesa divagazione da sala d’attesa né una versione poco più ambiziosa del giochino dei se: è una ricerca molto seria, condotta interpellando autorità in ogni materia, abile nell’inoltrarsi in ogni mondo possibile immaginato con piglio accattivante e conversativo – forse perfino troppo, soprattutto lungo certi snodi che meritavano, semmai, uno scandaglio più acuminato. Alla fine sa gettare una luce inequivoca su tutta la strada che abbiamo fatto, al punto che proprio in questo risiede il suo maggior valore: una ricerca nata per farsi domande sul futuro (diciamo pure, per giocare con diverse idee di futuro) offre inequivoche risposte sul passato. Infatti, leggendo il capitolo “Il giorno in cui l’uomo diventa immortale” (spoiler: l’immortalità è incompatibile con la sopravvivenza della specie, ce ne faremo una ragione), è inevitabile vedere chiaramente il punto a cui ci ha portato il tragico abbandono della consapevolezza della limitatezza biologica e spirituale che ci zavorra senza alternative. Oppure, godendosi il più che ansiogeno “Il giorno in cui gli antibiotici non fanno più effetto” (livello di plausibilità altissimo: prepariamoci), addentrarsi nell’ammirevole storia dell’evoluzione umana attraverso le conquiste mediche, lettura obbligatoria per tutti gli analfa-complottari da baretto: gli antibiotici vedranno presto smorzati i loro effetti e sì, saranno guai – oh, se saranno guai! – ma senza ci saremmo estinti nel Trecento. “Il giorno in cui qualcuno potrà assumere le sembianze di qualcun altro” racconta invece di quanto sarà spaventoso vivere in un mondo in cui chiunque potrà prendere le sembianze di un altro e fargli fare letteralmente qualunque cosa ma, tra le righe, ecco spuntare un mini-saggio involontario sul tema del tramonto dell’identità quale l’abbiamo sempre conosciuta – l’unica che credevamo esistesse. In tema di debolezze della (futura iperconnessa) umanità, poi, il capitolo “Il giorno in cui internet si blocca ovunque” fa tremare di paura ma anche dal ridere. Perché a mettere in crisi il World Wide Web non sarà un sofisticatissimo gruppo terroristico su scala globale. Nel 2011 è già successo: è bastata una vecchietta armena dotata di sega.

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