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Il pianeta russo

Edoardo Rialti

Quando c’era la Cortina di ferro. Dall’utopia politica alle grandi fantasie sul futuro, con licenza di Stalin: la fantascienza nel mondo comunista

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Scenderà qualcuno dalle stelle,

A salvarmi, all’urlo del mio pianto?

Solo i serpi gettan via la pelle,

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Noi cambiamo l’anima soltanto (Nicolaj Gumilev)

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Nella sua difesa estetico-individualista del socialismo (che terminava significativamente con un inciso sulla Russia zarista) Oscar Wilde sosteneva che “un planisfero che non comprenda Utopia non merita nemmeno uno sguardo, perché escluderebbe l’unico paese al quale l’umanità approda in continuazione”. Gli stessi Marx ed Engels, nel Manifesto, si limitarono a riprendere l’aggettivo per analizzare i pregi e i difetti di quello che definirono appunto il socialismo utopistico, perlopiù agrario. Nel 1888 però, l’economista Karl Kautsky, già segretario di Engels e curatore del quarto volume del Capitale, si dedicò esplicitamente ed estesamente alla società comunista vagheggiata nell’opera d’immaginazione del cancelliere rinascimentale Tommaso Moro. E pochi anni dopo il filosofo e medico Aleksandr Malinovskij, traduttore russo dello stesso Marx, pioniere delle trasfusioni sanguigne nonché tra i protagonisti della Rivoluzione, negli anni che intercorrono tra i primi tentativi di rivolta organizzata e la sua effettiva realizzazione scrisse un romanzo, Stella rossa, nel quale l’Utopia è già avvenuta altrove, da secoli, e i suoi abitanti decidono di traversare il mare nero dello spazio per coinvolgere anche i terrestri in una grande operazione comunitaria dalle implicazioni niente affatto lineari e scontate. L’opera uscì sotto lo pseudonimo di Aleksandr Bogdanov (e già Gramsci aveva proposto a Julia Schucht di tradurlo a quattro mani, ma il testo effettivamente realizzato, parziale o completo, è andato perduto): proprio Bogdanov è il protagonista del bel Proletkult dei Wu Ming, nel quale viene inaspettatamente visitato da chi sostiene di provenire da qualcosa che ricorda le sue stesse invenzioni narrative).

 

Siamo abituati alla grande, decisiva importanza della fantascienza in ambito occidentale, al tempo stesso specchio delle nostre aspirazioni – e inquietudini – e analisi delle nostre contraddizioni; è perciò particolarmente interessante sbirciare anche dall’altra parte della ex Cortina di ferro, giacché anche nel blocco comunista-sovietico la fantascienza ha esercitato un ruolo che consente di comprendere meglio l’importanza del genere stesso nella riflessione politica e sociale contemporanea e come le sue voci più forti abbiano saputo profetizzare scoperte e dinamiche, sollevare quesiti e ammonimenti, spesso lievemente ma decisamente sfasati rispetto alle facili critiche dell’avversario ideologico nelle quali vorremmo arruolarle, proprio come dall’altra parte della barricata.

  

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L’utopia realizzata su un altro pianeta: è andato perduto il romanzo di Malinovskij, tra i protagonisti della Rivoluzione d’ottobre 

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Già nel secolo precedente la letteratura russa di fantascienza poteva annoverare firme che hanno subito palesato come le sue speculazioni rientrassero nella letteratura più alta, audace e complessa. Basti pensare al Dostoevskij de Il sogno d’un uomo ridicolo, laddove il meschino io narrante approda su un altro, edenico pianeta, e alla luce dorata e tra i palmizi del suo clima mediterraneo (la Grecia vagheggiata da tutto l’Ottocento romantico) incontra una stirpe umana d’immacolata generosità e grazia, per la quale prova uno struggimento carico di venerazione. Eppure tanto stupore e devozione non gli impediscono di terminare il paragrafo spiegando con feroce, masochistico trionfo come “io li corruppi tutti… come una cattiva trichina, come un atomo di peste che infetta nazioni intere… essi impararono a mentire, presero ad amare la menzogna e scoprirono la bellezza della menzogna”.

  

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Un parente del conte Tolstoj, Aleksej, nel 1923 pubblicò il romanzo Aelita, che darà il nome a uno dei più rinomati premi di fantascienza russi, nel quale alcuni terrestri aiutano a diffondere la rivolta di classe su Marte. Ma già siamo a rivoluzione avvenuta, e nel frattempo il sopracitato Bogdanov, lettore di Verne e Wells (a sua volta socialista) ha appunto concepito e pubblicato il suo Stella rossa (meritoriamente ritradotto per Alcatraz Edizioni dal collettivo di traduttori Ulyanov) che ha la suggestiva intuizione di mostrare come Kierkegaard avesse ragione quando affermò che l’uomo preferisce il dolore alla felicità: il terrestre condotto dai marziani a conoscere la loro complessa e illuminata società comunista, reagisce con l’angoscia e perfino il panico violento d’un reduce di guerra. Al netto di talune pesantezze retoriche (molto comuni nella letteratura del tempo) il romanzo ha anche il pregio, davvero singolare in quel contesto e periodo (e che sarà condiviso con tutt’altra prospettiva dal C. S. Lewis di Lontano dal pianeta silenzioso, più di vent’anni dopo), di inserire tra le grandi sfide collettive dell’intero sistema solare anche le condizioni climatiche e lo sfruttamento eccessivo delle risorse dei singoli pianeti.

 

Noi di Evgenij Zamjatin, con la sua critica alle società assolutistiche, in significativa controtedenza rispetto ai fiduciosi scenari vagheggiati dalla fantascienza coeva, sarà una delle fonti d’ispirazione per Il mondo nuovo di Huxley, laddove i capolavori di Bulgakov (Le uova fatali, il sequestrato Cuore di cane e il copione di Ivan Vasil’evic) costituiscono delle perfide, magnifiche satire della mentalità burocratica nell’Urss, della rozza brutalità dei nuovi capi partito e dell’egoismo mascherato da adulatorio progressismo delle nuove classi dominanti: chi scrive, oltre ad aver goduto della magnifica messa in scena di Cuore di cane stesso nelle interpretazioni di Lombardi e Pierobon, non dimenticherà mai il dettaglio del chirurgo che nel racconto si raddrizza dal tavolo dell’immonda operazione “come un vampiro ormai sazio”. I Fratelli Strugacki, con le splendide e inquietanti ipotesi narrative alla base di E’ difficile essere un dio e Picnic sul ciglio della strada, sono stati adattati per il cinema nientemeno che da Aleksandr German (con una perturbante immersione in un vorticoso quadro di Bosch) e l’Andrej Tarkovskij di Stalker. E proprio Tarkovskij ricavò un altro film da un romanzo del polacco Stanislaw Lem, una delle voci più ricche e complesse della letteratura fantascientifica mondiale, significativamente critica verso entrambi i poli politici e culturali della Guerra fredda. Lem giudicava letteralmente spazzatura molta della fantascienza commerciale prodotta in occidente, e criticò persino Ursula Le Guin, ritenendo impossibilità logiche e sociali i mutamenti di sesso alla base della società ne La mano sinistra delle tenebre.

  

Barack Obama ha indicato in un bestseller di fantascienza cinese una delle sue letture preferite negli anni alla Casa Bianca

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Il Philip Dick di Blade Runner e La svastica sul sole arrivò persino a informare l’Fbi che secondo lui in realtà lo scrittore polacco non esisteva affatto, ed era solo un complotto comunista. Ma Lem, le cui opere sono sempre capaci di unire la ricchezza della documentazione scientifica alla vastità degli interrogativi gnoseologici e metafisici, non si dimostrò affatto compiacente neppure verso l’adattamento del suo Solaris a firma d’un poeta del cinema come Tarkovskij. Se in quest’ultimo ci si imbatteva in un pianeta pensante, Golem XIV presenta invece un’intera conferenza tenuta da un’Intelligenza artificiale. Laddove un precedente modello, soprannominato Bianca la Candida, decide inaspettatamente di tacere, assorta in un perenne stato meditativo (e Francesco D’Isa su The Florentine Review ha recentemente proposto una divertente variazione fantascientifica sulle possibili implicazioni spirituali dell’espressione ho bisogno di staccare un po’), invece Golem ha ancora la compiacenza di rivolgersi agli essere umani, con un lungo intervento che esamina le tragiche limitazioni e zoppie della nostra natura biologica (“perché il corpo non soddisfa l’elementare postulato della simmetria, il quale dovrebbe prevedere che ai sensi indirizzati verso il mondo dovrebbero corrispondere dei sensori ugualmente sottili indirizzati verso l’interno. Perché udite una foglia cadere e non siete in grado di udire un’emorragia interna?”) e soprattutto palesare come il codice d’informazioni inscritto nel patrimonio genetico abbia inventato la valigia delle nostre presunte personalità e individualità al mero fine di trasmettersi nel tempo.

 

Gli interlocutori umani si scandalizzano ancora che Golem sostenga di indossare una personalità al mero fine di interloquire con loro, ma questo perché vogliono ancora aggrapparsi alla favola dell’io e del libero arbitrio. Come nell’antica accezione teatrale, la persona qui è solo una maschera, la trasmissione d’informazioni è la sola realtà che conta, e ormai questa ha trovato una cassaforte e un vascello assai più stabili e perenni: “Né morire né vincere all’antica vi riesce. Credo che entrerete nel secolo della metamorfosi, che deciderete di rifiutare tutta la vostra storia, tutta l’eredità, i resti dell’umanità naturale, la cui immagine ingigantita in una tragicità estetica è il punto focale degli specchi delle vostre credenze – che supererete, perché non c’è altro modo – e in quello che oggi per voi è il salto nell’abisso, solo in quello voi percepirete una sfida, per non dire una certa bellezza, e tuttavia procederete a modo vostro, cioè: rifiutando l’uomo, si salverà l’uomo”. Dopo la caduta dell’Urss la fantascienza russa ha continuato a raccontare ucronie nelle quali il comunismo è diventato una nuova forma religiosa, saghe steampunk o post-catastrofiche, viaggi tra dimensioni parallele. Si sono imposti autori come Vyacheslav Rybakov, Ekaterina Sedia (dagli Stati Uniti) e i numerosi scrittori di lingua ucraina. E nel nuovo mercato globale non ci si limita a importare bestseller occidentali come Gibson o Corey. La trilogia post nucleare di Metro 2033 (con la sua Mosca delle metropolitana contesa da piccoli stati d’ispirazione stalinista o neonazista) e il corrispettivo franchise (soprattutto il videogioco) sono stati venduti in decine e decine di paesi, e l’autore Dmitrij Gluchovskij è stato premiato dall’European Science Fiction Society all’Eurocon del 2007.

  

Anche testi di Dostoevskij e Tolstoj ambientati oltre gli usuali confini spazio-temporali. Bulgakov e le sue satire sulla burocrazia 

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Certamente l’immaginazione fantascientifica nell’Urss ha incontrato spesso anche ostilità e censure, specialmente nei decenni staliniani tesi a esaltare esclusivamente il “realismo” in narrativa e propensi a concedere solo timide escursioni in un domani che a sua volta esaltava le conquiste dell’oggi (magari nel campo delle esplorazioni spaziali), un clima di diffidenza e filtro condiviso anche dalla Cina comunista. Se già nel 1903 Lu Xun traduceva Jules Verne, negli anni 80 del secolo scorso l’immaginazione sci-fi veniva ancora bollata come “veleno spirituale”. Una guerra ideologica che è stata del tutto abbandonata negli ultimi decenni, nei quali il regime ha invece investito grandi energie e finanziamenti nell’incoraggiarla, avendo constato come la speculazione narrativa preceda e favorisca l’innovazione tecnologica. E se già negli anni 60 si era potuto assistere a una significativa collaborazione al di là del Muro, quando Carl Sagan e Iosif Shklovskij scrissero insieme La vita intelligente nell’universo, è davvero un mondo nuovo quello in cui un presidente degli Stati Uniti raccomanda un libro di fantascienza cinese. In un’intervista del 2017 a Michiko Kakutani per il New York Times, Barack Obama ha citato proprio il bestseller di Liu Cixin Il problema dei tre corpi tra le letture che ha particolarmente apprezzato nei suoi anni alla Casa Bianca: “Esattamente. Ha una portata immensa, è stato divertente da leggere, in parte perché i miei problemi quotidiani con il Congresso sembravano alquanto meschini – niente di cui preoccuparsi. Stiamo per essere invasi dagli alieni…”.

  

Il polacco Stanislaw Lem, una voce critica verso entrambi i poli politici e culturali della Guerra fredda. Ispirò anche Tarkovskij

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Chi avrebbe immaginato che il primo presidente afro-americano degli Stati Uniti avrebbe citato un’opera concepita nella Cina comunista per esprimere nuovamente un concetto che in parte riecheggia un’intuizione antica come il Somnium Scipionis e ripresa da Dante nel Paradiso: dalla sommità dell’abbacinante gloria celeste, il pellegrino fiorentino si volta per gettare uno sguardo alla Terra, e significativamente riesce ancora a scorgervi lo Stretto di Gilbiterra, il varco “folle” di Ulisse, soglia d’ogni avventura fantascientifica verso le terre mai esplorate dall’uomo, qui o altrove, quando i pianeti avranno preso il posto delle isole. E il protagonista-narratore, circondato da bellezze e terrori inconcepibili, esposto alle autentiche, sconvolgenti dimensioni dell’universo nel quale viviamo spesso inconsapevoli, ha un pensiero di dolente malinconia per la miseria delle nostre contese quotidiane, intenti come siamo ad azzannarci per questo minuscolo frammento nel cosmo, “l’aiuola che ci fa tanto feroci”.

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