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“Finnegans Wake” finalmente torna in libreria

Antonio Gurrado

L’enigma più bello. Diciassette anni per scriverlo, ottanta per tradurlo

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Diciassette anni per scriverlo, ottanta per tradurlo: arriva oggi in libreria un romanzo che ha percorso un secolo intero, durante il quale è stato considerato invalicabile confine del genio sperimentale o insostenibile produzione di un ciarlatano troppo ambizioso. Mondadori fa uscire l’ultimo volume della traduzione di “Finnegans Wake” nell’ottantesimo anniversario della sua apparizione al mondo, il 4 maggio 1939, consapevole che a tanta distanza lo choc narrativo non sarà lo stesso ma l’impatto editoriale, se possibile, superiore.

   

Il testo originale di Joyce, 628 pagine, si è trasformato in cinque volumi sempre più corposi, trasudanti note immaginifiche, spiegazioni dotte, un labirinto di nozioni stratificate e glossari malleabili rivolto a un lettore ideale che forse non esiste più, forse non esiste ancora; impresa che richiede alla casa editrice un ardimento non inferiore a quello dei traduttori, modestamente sottinteso nell’asciutta “Avvertenza” su cui il volume si apre. Aveva iniziato Luigi Schenoni nel 1982, con un primo tomo financo smilzo se considerato a posteriori, proponendo una versione che Umberto Eco trovava neogaddiana e invitando il lettore a giocare con le note esplicative sparse in un disordine ben articolato, così da associarle creativamente agli oscuri riferimenti del testo. La sua opera si è fermata a metà, col terzo volume uscito nel 2011, tre anni dopo la morte. Hanno proceduto Enrico Terrinoni e Fabio Pedone creandoci attorno un gioco ancor più sofisticato, con appelli alla traduzione creativa, appositi concorsi sui giornali, gruppi Facebook, consultazioni per tradurre un ostico trisillabo che potevano coinvolgere suggeritori a decine fra i più disparati, da Eduardo Camurri ad Alessandro Bergonzoni.

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Il merito dei traduttori è indubbio e solo la lettura del testo può renderne l’idea; ma il merito dell’editore sta nell’aver sottratto un romanzo al binario morto dello sperimentalismo, condannato a letture esegetiche di noiose gerarchie accademiche, per restituirlo al fondamentale diritto del lettore: alzare la mano e dire che quella parola, quella frase che nessuno capisce gli sembra schiudere un significato inedito. Poiché sulle prime nessuno ci capisce niente, ognuna di queste ipotesi è giusta in quanto il senso di “Finnegans Wake” non si costruisce sceverandolo dalle interpretazioni errate, bensì accumulando su ogni parola sottintesi, riferimenti, citazioni, parodie, storie e significati che, una volta richiuso il libro, tornano a essere inconciliabili. L’edizione italiana presenta addirittura ipotesi contraddittorie riguardo alla lingua in cui il libro è scritto: per Stefano Bartezzaghi in finneganese, idioma inventato da Joyce; per Terrinoni, in una lingua inesistente poiché non può essere insegnata; Pedone sottolinea il carattere grafico con cui alcune pagine tendono a voler essere guardate più che lette; la critica tradizionale ha sottolineato la necessità di ascoltarlo come musica per coglierne i soundsense; Schenoni, buonanima, era convinto che i calembour di Joyce fossero impiantati su una base solidissima, l’inglese, trascinato e dilatato fino allo stremo. Diciassette anni per scriverlo, ottanta per tradurlo e chissà ancora quanti per riuscire a capire in che lingua sia scritto il libro più bello del mondo, l’unico il cui autore e traduttore è sempre il prossimo lettore che lo aprirà per la prima volta; pur di procurargli questo piacere, vale la pena di rischiare che non lo legga nessuno. 

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