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La tata fotografa che catturava volti ma li lasciava alle soglie del mistero

Sergio Garufi

La solitudine e le rinunce. Vivian Maier a dieci anni dalla morte

"Noi siamo qui solo come ricordi per i nostri figli”, dice Matthew McConaughey nel film Interstellar. E Vivian Maier, l’Emily Dickinson della fotografia, per chi era al mondo lei? Non aveva figli, né marito, né amici, e nessun rapporto con la sua famiglia. Gli unici che l’ebbero a cuore furono tre ragazzi di cui si era presa cura come tata molto tempo prima, i fratelli Gensberg, che la soccorsero nel momento del bisogno, assicurandole un tetto sopra la testa dopo che era stata sfrattata a causa della sua mania accumulatrice. In questa casa, la sua ultima dimora, un monolocale in riva al lago Michigan, Vivian condusse una vita estremamente ritirata, senza la compagnia dei bimbi che aveva accudito per tanti anni e senza il conforto della sua macchina fotografica con la quale aveva girato il mondo, e le cui immagini noi oggi scorriamo come le pagine di un diario intimo eccezionale che la fa entrare di diritto tra i grandi nomi della fotografia americana come Diane Arbus, Robert Frank e Ansel Adams. Proprio quest’ultimo sosteneva che “il negativo è come lo spartito e la stampa è la sua esecuzione”. In questo senso, Vivian compose moltissimo ma non eseguì o interpretò le sue immagini. Forse non sentiva il bisogno di condividerle, ma il suo successo postumo – che secondo Pamela Bannos, autrice di una sua documentata biografia, lei non avrebbe gradito – è dovuto proprio alla logica della condivisione che anima siti come Flickr. Qui John Maloof, un giovane rigattiere, pubblicò i suoi negativi che aveva acquistato a un’asta, dopo che la sua proprietaria aveva smesso di pagare l’affitto del box nel quale li aveva stipati, e sempre qui ricevette conferma del valore straordinario di quelle immagini. Maloof fu il suo Max Brod, colui che prestò ascolto alla voce di quella vita inavvertita e impedì che di lei si perdesse ogni traccia.

  

Forse Vivian apparteneva a quel tipo di persona che nasce postuma ma è spinta da una passione divorante alla quale sacrifica tutto. Una di quelle persone che è come se venissero al mondo dentro una bolla in grado di precludere ogni contatto con l’esterno, e forse è questo che rende il loro sguardo così partecipe: l’amara consapevolezza di vivere in un altro tempo e di non poter colmare la distanza che li separa dall’oggetto delle loro attenzioni. Ma se per Robert Capa la fotografia consisteva nel trovare la giusta distanza, è innegabile che con la sua Rollei a tracolla Vivian fosse una maestra della posizione, e riuscisse con facilità a rapportarsi agli altri; a volte riprendendoli con sarcasmo, irridendo lo snobismo dei ricchi, e a volte con grande empatia, soprattutto gli umili e i vinti. Ma il suo sguardo cercava spesso la propria immagine riflessa, e la lunga galleria di autoritratti che ci ha lasciato, mai in posa o celebrativi, somiglia a dei grandi punti interrogativi sospesi. Tutti gli scatti di Vivian Maier sono un po’ così, sembrano sul punto di rivelarti il loro mistero ma alla fine se ne ritraggono. A un massimo di evidenza realistica, di oggettività, di eloquenza, corrisponde un silenzio profondo, esplicito nel suo mutismo, come se le figure catturate per strada o sulla superficie di uno specchio emergessero dal nulla solo a patto di restare perpetuamente inespresse. Ogni sua immagine chiede di essere “immaginata”, perché raccoglie un istante perduto nel tempo, sebbene di quell’istante ci restituisca solo la sua carcassa inerte. Come uno spezzone di super 8 ripreso nel film “Finding Vivian Maier” di John Maloof, in cui la tata-fotografa con tono divertito chiede a un bimbo cui faceva da baby sitter: “E ora, dimmi, come si può vivere per sempre?” Avrebbe mai immaginato che i suoi scatti l’avrebbero resa immortale? E che grazie alla sua mania di conservare tutto noi avremmo ricostruito passo passo la sua vita? Maloof negli scatoloni trovò un’infinità di ricevute, scontrini fiscali, abiti, lettere mai aperte, ognuna con il “c/o” premesso al nome e all’indirizzo. La sigla c/o deriva dall’inglese care of, cioè “alle cure di”, e rappresenta un po’ lo stigma sociale del grande artista nella sua fase clandestina, quasi che un indirizzo proprio non possa che scaturire dal riconoscimento ufficiale del talento, o come se un artista in erba, per esprimere al meglio le sue potenzialità, abbia bisogno che un estraneo gli faccia da curatore. Così fu per Julio Cortázar, per Giorgio Manganelli, per Paul Klee, per Elias Canetti, solo per citarne alcuni. Vivian Maier visse quasi sempre in casa d’altri, e fra i suoi indirizzi si trovano delle coincidenze sorprendenti, come il fatto che lei e Susan Sontag, l’autrice di “On photography”, abitarono nello stesso palazzo di New York. A Chicago, ormai vecchia e malandata, Vivian chiese ai suoi ultimi datori di lavoro di essere adottata, come pensando che quel rapporto così intimo valesse quanto un legame di sangue, ma venne ovviamente presa per pazza e scacciata. Lì cominciò la sua fine. Smise di fotografare e, dopo aver lasciato in un deposito i suoi rullini, smise anche di pagare l’affitto per quegli scatoloni. I vicini di casa racconteranno che molti nel quartiere la credevano una senzatetto, perché vestiva male e rovistava nei cassonetti alla ricerca di giornali da leggere, ma non per indigenza, dato che alla sua morte il suo conto corrente vantava un attivo consistente. Pare che facesse ogni giorno lo stesso tragitto a piedi da casa al Rogers Beach Park, dove sedeva sulla stessa panchina di fronte al lago fissando il vuoto. Lì, nella settimana del Thanksgiving 2008, ebbe un mancamento, cadde e sbatté la testa. Fu ricoverata in ospedale, ci si aspettava che guarisse presto ma si rifiutò di mangiare, s’indebolì e venne trasferita in una casa di cura ad Highland Park, dove morì il 21 aprile 2009. A distanza di dieci anni dalla sua scomparsa, nonostante il processo di canonizzazione in corso, il segreto del suo sguardo resta ancora impenetrabile, ma ciò che sopravvivrà è il frutto di quello sguardo, le sue fotografie, che oggi girano da sole per il mondo come i bambini che aiutò a crescere.

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