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I sauditi che non entreranno alla Scala e il pasticcio dei pappataci (evitabile)

Maurizio Crippa

Il no del cda e le lotte politiche che hanno indebolito Alexander Pereira

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Milano. Come nell’Italiana in Algeri, al centro di tutto c’è la burla del Pappataci, che deve attenersi alla consegna di non vedere, non sentire e tacere. In questa storia è pieno di Pappataci. Solo che anziché un’opera buffa è un disastro per la Scala, per il sistema decisionale milanese e il sistema culturale pubblico italiano nell’insieme. “Restituiamo i soldi ai sauditi”, ha detto lunedì 18 marzo il sindaco Beppe Sala, annunciando la decisione “all’unanimità” del cda della Fondazione del Teatro, di cui è presidente: “Vedremo se ci saranno altre possibilità di collaborazione”. Nessun soldo dell’Arabia saudita entrerà nei forzieri, né il ministro della Cultura Badr bin Abdullah bin Mohammed al Farhan siederà nel cda tra i “soci fondatori” come gli avrebbe garantito, da statuto, la contribuzione al bilancio per almeno 3 milioni l’anno per un quinquennio. Tutti tirano (apparentemente) un sospiro di sollievo, a parte Alexander Pereira, il sovrintendente che aveva condotto l’operazione di avvicinamento e che oggi sconta un isolamento che sa di ipocrisia. Ma il pasticcio è generale, e le opportunità geopolitiche c’entrano fino a un certo punto.

 

La storia è nota. Poco meno di un anno fa, il sovrintendente della Scala aveva intavolato conversazioni informali con i sauditi, che si erano fatti avanti offrendo un investimento per il teatro, collegato anche a una attività della Accademia della Scala per avvicinare alla musica i giovani sauditi: un segnale di apertura del regno attraverso la collaborazione con una grande istituzione occidentale. Un progetto, ha fatto sapere Pereira, per nulla osteggiato né dai leghisti né da altri. Finché a febbraio sono stati i leghisti i primi ad attaccarlo, quando è emerso il particolare che a entrare nel cda avrebbe potuto essere in forma diretta il governo saudita, e non una fondazione o un’azienda, per quanto di stato. Un passo azzardato di Pereira, manager decisionista, ma lì scoppia il concorso dei Pappataci. Il primo è il governatore Fontana (che pure nel cda ha un suo rappresentante), contento di colpire indirettamente Sala, che del cda è presidente. Il Comune è a sua volta spiazzato, un po’ prende le distanze da Pereira, un po’ contrattacca Fontana. Interrogazioni parlamentari chiamano in causa il ministro Bonisoli, che inizialmente nega di averne saputo niente, ma così non è nemmeno per lui. Da ultimo viene fuori la faccenda che il principe saudita aveva già versato, a mo’ di irrituale cauzione, i tre milioni, circostanza infelice, e il gioco si fa più duro. Fino alla bocciatura, annunciata. Per una faccenda che avrebbe potuto andare diversamente, ci fosse stata una regia condivisa tra istituzioni.

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Perché poi la questione dell’Arabia Saudita, per quanto delicata, è meno dirimente di quanto sia stato detto: era questione di scegliere l’interlocutore. Matteo Salvini che ora dice: “Prima di prendere finanziamenti da paesi che hanno creato problemi in passato bisogna stare molto, molto, attenti. I fondi per la Scala possono arrivare da tanti ma non da tutti”, in riferimento al rispetto dei diritti umani, è lo stesso Salvini per cui lo stesso principio non vale per la Russia e forse per la Cina, con la quale il suo governo sta per firmare il famoso memorandum. Nel triplo ruolo di presidente del cda, sindaco ed esponente di sinistra, anche Sala si è trovato in una posizione scomoda, perché l’aria nel frattempo era peggiorata, con i sauditi, dopo il caso Khashoggi. Il presidente della commissione Diritti umani del Parlamento europeo, il milanesissimo pd Antonio Panzeri, ha denunciato la faccenda della Scala come “uno schiaffo alla Milano dei diritti”. Per mandare un segnale di democrazia ai sauditi, si poteva fare forse meglio che non bloccare una iniziativa di ambito culturale. La Germania, dopo Khashoggi, ad esempio ha bloccato le esportazioni di armi verso il paese. L’Italia?

 

Il bilancio della Scala non è rosso e l’iniziativa di Pereira puntava ad ampliare una presenza internazionale che – anche per le istituzioni culturali – è diventata luogo di una sfida sul mercato globale. Coinvolgere personalmente un principe-ministro è stata una mossa maldestra. Ma il gioco dei campanilismi e dei posizionamenti di comodo ha contribuito a trasformare un’operazione su cui si poteva conoscere per poi deliberare in un pasticcio di immagine in cui ci rimettono tutti. Beppe Sala ieri ha aggiunto: “La Scala ha sempre parlato con tutti i paesi del mondo, non abbiamo preclusioni verso i sauditi. O il nostro governo ci dà una black list dicendo con questi e altri non parlate, o non ci sentiamo di dire no, non si parla”. Ma alla Lega di Salvini ora fa gioco altro e a uscire indebolito è Pereira, che ha un mandato fino alla fine del 2020 e che finora ha fatto molto bene il suo lavoro.

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