La confusione morale
Ci vuole la faccia tosta e la tenera follia di Vichi Festa per raccontare la caduta della vecchia Repubblica dei partiti. Il libro perfetto per invertire i ruoli di buoni e cattivi alle scaturigini del caos a venire
Ci vuole talento letterario. Ci vuole il coraggio sorridente di noi vecchi, sprezzatura e sprezzo del pericolo. Ci vuole faccia tosta. Ci vuole cultura. Ci vogliono cattiveria, ironia e delicatezza. Per fare che? Per raccontare la caduta della vecchia Repubblica dei partiti, la fine del Partito comunista italiano, puer robustus ac malitiosus, l’inabissamento di sindacati e sinistra politica, la nascita di una lunga stagione dell’immaginazione moralistica al potere: tutte cose che durano ancora negli effetti e che hanno la loro origine, prima dell’89 di Berlino, nel conflitto degli anni Ottanta fra cinici riformisti togliattiani e massimalisti etici. La guerra raccontata è tra la Milano da bere di Craxi, di Ligresti, di Berlusconi (con la partecipazione straordinaria di Enrico Cuccia, Roccia nel romanzo) e il vorace appetito di “trippa alla Bettino” di settori della procura e della polizia, con il grosso dei berlingueriani di Roma incistati nella “questione morale” e collegati a un establishment di rentiers di vecchio rango, banchieri conservatori e “di sistema”, puristi della Costituzione, estremisti e radicali arrembanti, cattolici solidali. La confusione morale (Sellerio, 374 pp., 14 euro) è il titolo perfetto, tra Flaubert e Simenon, di un romanzo giallo scritto da Lodovico Festa, Vichi, uno dei fondatori di questo giornale, per invertire i ruoli di buoni e cattivi alle scaturigini del caos a venire. Ma il futuro non c’è, perché è un cane che si morde la coda.
Il conflitto tra realisti politici e moralisti pelosi ha per oggetto il Cazzaniga delle origini (Berlusconi), e sopra tutto il Crusca (Ligresti), sospettato di essere l’anello di congiunzione tra malaffare mafioso e Craxi, presidente del Consiglio e capo del “degenerato” sistema di potere milanese, bestia nera dei berlingueriani: e se fosse lui, il Crusca, il mandante dell’omicidio nel dipartimento di Urbanistica? E’ in corso una congiura, di cui l’omicidio è parte, e come sempre in questi casi se ne capisce il meccanismo soltanto alla fine del romanzo.
Da una parte stanno i dirigenti romani, i Pecchioli (Polli), i Minucci (Gatti), i Violante (Lorente), la Digos e i magistrati d’assalto; dall’altra i comunisti milanesi della maggioranza riformista, compreso da Roma un sapiente immoralista come Gian Carlo Pajetta (Regazzi), funzionari e funzionarie operai braccianti sindacalisti partigiani amministratori professionisti intellettuali architetti e belle architette, un mondo tutto insieme che ha trovato il suo severo, rigoroso, divertito ritrattista. Il nostro Cavenaghi sposta di qua e di là il suo 36 Quai des Orfèvres, mai gretteggia con stile e balzacheggia con ironia, e con l’aiuto di una indimenticabile Tullia degli Episcopi (il procuratore Beria d’Argentine) e di uno stendhaliano maggiore dei carabinieri (?) finisce per andare dove deve andare, con un’effimera e truce vittoria sul cattivo, che poi sarebbe il superbuono, il crociato morale professor Breganzi (?).
Anche come scrittore, Festa è un uomo d’ordine con un pizzico di tenera follia. Cronologia dell’intreccio, presentazione e sviluppo dei personaggi, senso e tempi del giallo, evocazione narrativa e paesaggio, atmosfere e gioioso dispiegamento della linea generale, passione e autocontrollo: tutto si tiene in uno stile da resoconto intimo e da flusso di coscienza pubblico che onora una letteratura che non c’è, a parte questa sua che però vende in libreria. In tutta la storia non si scopa mai, e Cavenaghi declina con eleganza e cortesia un invito all’adulterio, però per chi legge e ha amore per le storie e per la storia è garantito l’orgasmo.