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L’attimo immobile di Eudora Welty

Piero Vietti

La seconda vita in Italia della scrittrice americana, Pulitzer nel 1973, che con i suoi racconti dragava il letto della realtà

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“Guardate che va bene, vorrei dire agli studenti che mi scrivono, se le cose sono quello che sembrano, e se le parole vogliono dire ciò che dicono. E va bene anche se le parole e le apparenze significano più di una cosa”. Non è sempre scontato trovare fedeli alleati del vero tra gli scrittori. Eudora Welty lo era. Autrice del sud degli Stati Uniti – una delle voci letterarie più importanti di quelle zone assieme a Flannery O’Connor e William Faulkner – premio Pulitzer nel 1973 per il romanzo “La figlia dell’ottimista” e misteriosamente poco conosciuta in Italia, Eudora Welty è stata soprattutto scrittrice di racconti, oltre che fotografa. Ed è proprio la casa editrice Racconti che, meritoriamente, ha cominciato a ripubblicarla (lo scorso anno la raccolta “Una coltre di verde”, da poche settimane “Un attimo immobile”, nel 2019 uscirà “Le mele d’oro”).

 

E’ stata una delle voci letterarie più importanti del sud degli Stati Uniti assieme a Flannery O’Connor e William Faulkner

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Nata nel 1909 a Jackson, in Mississippi, Welty ha attraversato tutto il XX secolo raccontandolo con i volti e i luoghi in cui ha sempre vissuto, fino al 2001, diventando la prima scrittrice vivente la cui opera è stata pubblicata nella Library of America. Proprio come diceva nel 1974 parlando di una sua storia, nei suoi racconti le cose sono sempre quello che sembrano, eppure tutto significa anche qualcos’altro: nelle sue pagine il mondo è costantemente immerso in un mistero che “attende le persone ovunque esse vadano”. In “La rete grande” Hazel, la giovane moglie incinta di William, scompare dopo una notte in cui il marito ha fatto l’alba con gli amici. Gli lascia una lettera in cui annuncia di essersi andata a suicidare. William allora parte, e andando verso il fiume mette assieme una scombiccherata squadra di ricerca pronta a dragare il letto del fiume in cui Hazel ha detto di volersi buttare. Durante la ricerca tutto quello che accade parla a ognuno dei protagonisti: la propria immagine riflessa sull’acqua, un’immersione per cercare qualcosa, un airone che spicca il volo (“William lo seguì con lo sguardo e Brucie batté le mani, ma Virgil esalò un sospiro, come se sapesse che qualunque cosa può sembrare un segno, quando sei in cerca di ciò che hai perso”). La spedizione porta soltanto pesci, e si trasforma in una grottesca processione per le vie del paese, gli uomini fradici e le reti piene. William torna a casa sconfitto, e là trova la moglie ad aspettarlo. “Dov’eri quando sono tornato stamattina?”, le chiede. “Talmente vicina che bastava allungare una mano per toccarmi”. I due sono sulla veranda di casa, lei gli appoggia la testa sull’incavo del braccio. Conosciamo davvero la persona che amiamo? “A quel punto decise di rientrare, e si alzò e si mise a guardare dal primo scalino, fuori in giardino dove c’era l’albero delle lanterne cinesi e poi più in là, verso i campi bui dove guizzavano le lucciole. Lui pure si rialzò e le si mise accanto, con la fronte aggrottata, cercando di guardare dove guardava lei. E dopo qualche minuto lei lo prese per mano e lo portò in casa, sorridendo come se stesse sorridendo proprio a lui”.

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La scrittura di Welty ha il dono straordinario di lasciare in chi legge il sospetto che qualcosa di grande e decisivo stia sempre per accadere

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La scrittura di Welty ha il dono straordinario di lasciare in chi legge il sospetto che qualcosa di grande e decisivo stia per accadere. C’è sempre un altro orizzonte dietro a quello in cui si muovono i personaggi delle sue storie, un presentimento di significato in ogni gesto descritto. Nella prefazione alla raccolta di saggi sulla scrittura “Una cosa piena di mistero” (minimum fax), Carola Susani dice che “scrivere per Welty è calarsi nel profondo, alla ricerca dei pesci abissali […] la vocazione della sua scrittura è un aderire rigoroso alla realtà”. Nella realtà però c’è sempre molto più di quello che vediamo. Welty lo sa, e lo sanno anche certi suoi personaggi dotati di uno sguardo vero nei confronti del mondo: “Ma se fosse la propria identità – scrive in “Un attimo immobile” – ciò che lui si augurava di scoprire, oppure tutto ciò che l’uomo poteva afferrare oltre quella, l’unico modo per lui era l’osservazione infinita, l’attenzione per qualunque uccello gli volasse sul cammino e per qualunque serpe gli rilucesse sotto i piedi. Non ce n’era mai uno definitivo; continuava a guardare, sempre più a fondo, e senza mai fermarsi, come se cercasse una bestia rara, o un uccello leggendario”. La bestia rara, l’uccello leggendario, esistono davvero: sono quel mistero da lei spesso citato, a cui i personaggi dei suoi racconti partecipano in modo strambo e drammatico, inconsapevolmente certi che l’alternativa sarebbe una vita misera.

 

“I venti” descrive una notte di tempesta vissuta da una famiglia che si rifugia nella stanza della casa più sicura aspettando la fine della pioggia. Tutto il racconto è narrato attraverso gli occhi e la memoria di Josie, la ragazzina a cui ogni rumore e luce che provengono dalle finestre ricordano episodi significativi della sua giovane vita, dall’amicizia particolare con Cornella ai giochi con i coetanei, fino al concerto di una trombettista: “Le era passato per la mente che quella sera la bellezza del mondo fosse arrivata con i suoi segni a percorrere la loro cittadina; e le era parso di avere udito un proclama nell’ultima nota alta della trombettista, e che dopo quel momento non ci sarebbe più stata attesa e non ci sarebbe più stato tempo, per chi non dava retta e non seguiva”. In Welty il mistero usa molti trucchi per chiamare, e cambia le persone che se ne accorgono, cambia la loro attesa – pur senza soddisfarla, anzi: dopo quell’incontro tutto è ancora più segno, persino la pioggia (“un tamburellio contro la finestra, come una supplica che veniva da fuori… Da parte di chi? Non poteva saperlo”).

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Anche la Storia, quando finisce nelle sue pagine, è attraversata da questa supplica, che a tratti diventa promessa, ferita e feritoria. In “Primo amore” Welty intreccia le vicende di Joel, un bambino, con i preparativi della cospirazione poi fallita che l’ex senatore Aaron Burr organizzò sotto la presidenza Jefferson. Una notte Joel scopre che Burr si incontra di nascosto con un altro uomo nella locanda in cui lui lavora. I loro gesti, i loro bisbigli, i loro volti alla luce della candela lo trafiggono, “come se il mondo fino a quella notte fosse stato inanimato”. Il giorno dopo “ogni cosa nell’istante passeggero e ogni piccola zione assunsero la più solenne importanza. Joel traeva auspici da ogni cambiamento nella locanda, nell’angolazione delle porte, nell’altezza dei fuochi, a seconda che i ciocchi fossero stati smossi da uno stivale o fossero semplicemente caduti in una stanza vuota. Era preso e posseduto dal mistero. Attendeva la notte”. Nelle pagine di Welty tutto è quello che deve essere, ma è anche segno. Sono pieni di sguardi più in là, i suoi racconti (“Joel sapeva che lì gli occhi di Aaron Burr non vedevano nulla e che andavano sempre oltre la stanza, anche se alla fine della festa la più bella donna presente si trovava di norma fra le sue braccia”). La penna di Eudora interroga senza tregua la realtà e lo fa nel modo più semplice e vero, raccontandola così come è. Lo stesso fanno i suoi personaggi, ognuno con il temperamento che ha. Ancora in “Un attimo immobile” Welty immagina l’incontro forse mai avvenuto tra tre personaggi realmente esistiti: l’evangelista Lorenzo Dow, il bandito James Murrell e l’ornitologo John James Audubon. Ognuno di loro fa quello che fa per una sorta di necessità ontologica: “Murrell era un assassino il cui colpo di grazia era sempre eccessivamente posposto, che doveva imporsi il peggior tedio per agire […] Nel prendersi un uomo Murrell intendeva risolvere il mistero del proprio essere. Era come se gli altri uomini, tutti tranne lui, una volta aggrediti allentassero la presa sul segreto, e in morte lo lasciassero volare libero. Con la violenza stava solo affrontando l’enigma. E quella violenza scuoteva lui per primo”.

 

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La casa editrice Racconti ha cominciato a pubblicarla. “Tra l’autore e la storia che scrive l’immortale terzo personaggio c’è”

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Il primo a essere mistero è l’altro, soprattutto quando lo si ama. Nel racconto “L’approdo” Welty ci fa seguire l’innamoramento di Jenny per Billy Floyd, un poco di buono nomade e bestiale. Eppure, pensando a lui Jenny “sapeva che l’amore avrebbe avuto una storia diversa, sulla terra, se avesse potuto perdere la coscienza morale del mistero che si cela nel cuore altrui. […] Subito fu colta dall’idea che un fragile mistero era in tutti e dunque anche in lei, poiché lo vedeva in Floyd, e che, qualunque cosa facesse, sarebbe stata costretta a calpestare e ferire, e che questo terrore era il segreto della vita”. Il mistero chiama anche attraverso circostanze e oggetti apparentemente inutili o secondari. Nella raccolta “Una coltre di verde” c’è un racconto, “Gli autostoppisti”, in cui Welty mette in pagina alla perfezione la sua idea per cui “le parole e le apparenze significano più di una cosa”. E lo fa capire al lettore facendolo prima intuire al suo personaggio. Tom Harris, un piazzista trentenne, carica in macchina due vagabondi che fanno l’autostop. Uno dei due ha una chitarra gialla con sé, che si limita però soltanto a strimpellare qualche volta. Tom si affeziona inspiegabilmente ai due, offre loro la cena e persino un posto per dormire. Ma proprio mentre è a parlare con il direttore del motel per affittare delle stanze, gli autostoppisti gli rubano la macchina. Dopo pochi metri hanno però un incidente, perché uno dei due colpisce l’altro con una bottiglia, probabilmente perché non era d’accordo a compiere il furto. L’uomo ferito viene portato in fin di vita all’ospedale, l’altro chiuso a chiave in una stanza del motel. A questo punto scopriamo che Tom era sì di passaggio, ma è solito frequentare quei luoghi, che in ogni paese della zona ha avuto donne di cui neppure ricorda il nome, e ha partecipato a feste il cui sapore è rimasto confuso nella sua mente. Proprio dopo una festa a cui partecipa quella sera stessa, si ritrova con una donna che gli dice di amarlo, ma di cui lui non ha memoria. Poco prima, nella sua stanza, “quasi per cercar sollievo il pensiero gli si volse a compassione ai due barboni, al loro scontro, all’improvvisa esplosione di brutalità avvenuta appena aveva voltato le spalle. Come sarebbe andata a finire? […] Di quella sera non poteva perdonare nulla. Ma troppo simile era stata ad altre sere, come tropo simile ad altre era la città, per scuoterlo da quel suo giacere ancora vestito sul letto e spingerlo verso il conforto o la disperazione. Anche la pioggia: spesso pioveva, spesso c’era una festa, e c’erano state altre violenze che non erano opera sua, altre liti, non proprio così inutili, ma liti nella sua macchina; liti, confessioni inaspettate, amori improvvisamente consumati; e nulla di tutto ciò che fosse suo, suo da conservare, perché invece apparteneva alla gente delle città che attraversava, uscendo dalle radici del loro passato e dai loro beffardi deliri, uscendo dal loro tempo. Lui, Harris, di tempo non ne aveva. Era libero; impotente. Avrebbe voluto sapere come stava il chitarrista, se era sempre in coma, se soffriva”. Quell’incidente nella sua macchina era la prima cosa sua dopo tanto tempo, e gli faceva vedere tutto il resto come improvvisamente inutile, superfluo. L’unica cosa che gli interessa, adesso, è quell’incontro con i due vagabondi con la chitarra. Lo cambierà? Non lo sappiamo, però Welty ci lascia queste pagine come un fermaglio, descrivendo l’istante in cui Tom Harris capisce una cosa nuova, si affeziona a una cosa nuova – strana, folle, ma finalmente sua, e vera.

 

Così come è sua l’intuizione di una vita possibile ma ormai perduta, che ha Bowman, il protagonista di “Morte di un commesso viaggiatore”. Ammalato da giorni, Bowman finisce in un dirupo con la sua auto in una zona sperduta. Quando bussa alla porta dell’unica casa nei paraggi, e una donna gli apre, il suo cuore comincia a battergli all’impazzata per la prima volta nella sua vita. Capisce di essere solo, e davanti a quella donna prova qualcosa mai provato prima. Mentre il figlio di lei cerca di tirare fuori dal dirupo la sua auto, lui la guarda: “Non riusciva a muoversi; non avrebbe potuto far nulla, salvo forse abbracciare quella donna. E invece avrebbe voluto saltar su e dirle: Sono stato malato e allora, solo allora, ho capito quanto sono solo. E’ troppo tardi? Il mio cuore combatte dentro di me, e forse l’hai sentito, che protesta contro il vuoto… Vieni a stare nel mio cuore, chiunque tu sia, e un fiume intero avvolgerà i tuoi piedi […] Invece si passò una mano tremante sugli occhi, e […] provò vergogna e sfinimento al pensiero che avrebbe potuto, da un momento all’altro e con parole e abbracci semplici, provare a comunicarle qualcosa di ignoto – un qualcosa che pareva sempre essergli appena sfuggito”. Bowman chiede ai due di potersi fermare a dormire a casa loro, e solo allora scopre di essere stato ingannato: il ragazzo non è il figlio della donna, e lei non è sformata dall’età, ma incinta. Nella notte fugge di nascosto verso la sua macchina, per andarsene da quel luogo. Ma il suo cuore non regge, e gli esplode nel petto. Quel cuore muto per tutta la vita “prese a esplodere colpi tremendi come un fucile”. Bowman muore, ma soltanto dopo aver scoperto di avere un cuore anche lui.

 

“Va bene se le cose sono quello che sembrano e le parole vogliono dire ciò che dicono. E va bene anche se significano più di una cosa”

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Sono tutti in attesa, i personaggi dei racconti di Eudora Welty. Spesso non lo sanno, ma a loro volta sono attesi dal mistero che c’è nel profondo delle cose, le quali sono così cariche di presentimento da fare piangere. Aspettano un volto, come Clytie, la protagonista di un racconto che si intitola con il suo nome: maltrattata dal padre, dal fratello e dalle sorelle, mezza matta e piena di paure, Clytie ha vissuto la vita cercando ovunque una faccia vista da bambina che “le aveva restituito lo sguardo”. In tutti gli anni a venire le facce dei famigliari si erano frapposti a quel volto, che lei cercava continuamente nelle “segrete, misteriose, irripetute facce che incontrava per strada”. Un giorno “si fermò accanto al vecchio barile per la pioggia e d’un tratto ebbe la sensazione che quell’oggetto, ora, appena in tempo, le fosse amico […] Clytie ondeggiò un poco e guardò dentro l’acqua appena smossa. Le era parso di vederci dentro una faccia. Ma certo. Era la faccia che aveva sempre cercato, e dalla quale era stata separata”. E’ il suo volto. Tremendo, spaventoso, straziante, ma è il suo. E’ sempre un altro il vero, discreto, protagonista dei racconti di Eudora Welty, e ha a che fare profondamente con la sua scrittura: è dentro di lei ma fuori, è in chi legge ma anche nelle pagine che si sfogliano. “Tra l’autore e la storia che scrive – diceva Welty – l’immortale terzo personaggio c’è”.

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