Inseguire Moby Dick con Ahab e Orson Welles
Neppure Orson Welles ha potuto cambiare quello che è uno degli incipit più evocativi e noti della storia della letteratura. “Chiamatemi Ishmael”, dice il Giovane Attore di “Moby Dick-Prove per un dramma in due atti” che Welles scrisse e mise in scena a Londra nel 1955 (diventerà anche un film, mai finito e perduto).
Neppure Orson Welles ha potuto cambiare quello che è uno degli incipit più evocativi e noti della storia della letteratura. “Chiamatemi Ishmael”, dice il Giovane Attore di Moby Dick - Prove per un dramma in due atti (Italo Svevo, 116 pp., 13,50 euro) che Welles scrisse e mise in scena a Londra nel 1955 (diventerà anche un film, mai finito e perduto). Il sipario si è appena alzato, la scena è disadorna, gli attori, vestiti in abiti civili, seguono distratti quanto succede sul palco, qualcuno fuma, altri leggono il giornale. Siamo davanti a una compagnia teatrale che la sera reciterà “Re Lear”, ma incomincia a provare tra mille dubbi un riadattamento teatrale del “Moby Dick” di Melville. La Giovane Attrice neppure sa che si tratta di una balena bianca – e come facciamo a metterla in scena? si chiede qualcuno. “La balena bianca è come la tempesta nel ‘Lear’: è reale, anzi è più che reale, è una chimera della mente”. L’arrivo improvviso dell’Impresario, che reciterà la parte del capitano Ahab, oltre ad altre due – come ogni attore in scena –, precipita tutti sul pontile di Nantucket, dove il Pequod sta per salpare e Ishmael trova una risposta al suo desiderio di “vedere la parte acquorea del mondo”.
E’ la balena stessa a chiamarli, lasciandosi vedere per poi scomparire, un già e non ancora continuo tra le onde scure dell’oceano: “E così ci trattò notte dopo notte, svanendo ogni volta… Laggiù! Dopo due notti o forse tre continuando ad avanzare avanti a noi il getto solitario ci attirava a sé”. Il tipo di recitazione richiesta da Welles agli attori impedisce a chi lo interpreta di incarnare fino in fondo Ahab. Resta così una distanza, la stessa che non permette al corpo del capitano di seguire fino in fondo il desiderio folle che ha in petto (“Io, che vorrei essere libero come il vento, sono in debito anche della carne della lingua con cui mi vanto”). Cosa guida Ahab? “Qualcosa di imperscrutabile, di soprannaturale. Sono io o Dio a muovere questa mano?”. Ma neppure sprofondare in uno “sguardo umano” come quello del suo primo ufficiale (“è meglio che guardare un mare vuoto o un cielo terso”) placa la sua sete. E’ il cuore di Moby Dick che Ahab vuole afferrare; sappiamo come termina la sua rincorsa, il solo Ishmael che sopravvive per dire la verità. L’Impresario, tornato se stesso, ordina di abbassare il sipario. Prima della battaglia fatale, davanti a una schiarita mattutina, “il vecchio Ahab lascia cadere una lacrima nel mare: nemmeno il vasto Pacifico contiene tesori simili a quell’unica goccia”.