Fëdor Dostoevskij

L'irrefrenabile gioia per una parola creata

Marco Archetti

In questi stessi giorni, centoquarant’anni fa, Fëdor Dostoevskij si vantava in pubblico. Lo faceva parlando di un neologismo dalle pagine del bellissimo “Diario di uno scrittore” 

In questi stessi giorni, centoquarant’anni fa, Fëdor Dostoevskij si vantava in pubblico. Lo faceva, con simulato ritegno, dalle pagine del bellissimo “Diario di uno scrittore”, pubblicazione mensile interamente a suo carico nella quale si abbandonava ai più disparati argomenti, quali: l’esistenza di Dio, le tarantole nelle camere d’affitto a Firenze come allegoria della questione d’oriente, la slavofilia, le sedute spiritiche. In un bell’articolo di novembre, dopo il consueto tortuoso preambolare, raccontava con soddisfazione del fatto che, nella letteratura e nella lingua russa, fosse ormai istituzionalizzato l’uso di un verbo molto importante – stuševat’sja – compreso da tutti, seppur di recentissima invenzione. “Adesso si può trovare non soltanto nei letterati e nei bellettristi”, festeggiava, “ma anche nei trattati scientifici, nelle dissertazioni, nei libri filosofici: è noto a tutti, tutti l’usano”. Pausa. “Tuttavia, in tutta la Russia c’è un solo uomo il quale sappia la precisa origine di questa parola, il momento della sua invenzione e della sua comparsa nella letteratura. Quest’uomo sono io”.

  

Vero. Perché la prima volta che quella parola apparve a stampa fu il 1° gennaio 1846, nel romanzo “Il sosia”. Il significato? “Scomparire, svanire, ridursi a nulla”, un verbo – mi si passi l’espressione grossolana – che più dostoevskiano non si potrebbe. Ma la storia è anche più sfaccettata, perché la sua invenzione precedette la comparsa su carta: la prima volta che il vocabolo cantò la propria genitura, rutilando nell’aria, fu tra le pareti domestiche del critico Belinskij, nell’occasione in cui Dostoevskij lesse a un gruppo di fidati estimatori i primi tre capitoli di quel che poi diventerà il romanzo. “La nuova parola non suscitò alcun dubbio negli ascoltatori, ma al contrario fu da tutti compresa e notata, e Belinskij mi interruppe per lodare l’espressione”. Pausa. “Ricordo benissimo che mi lodò anche Turgenev, il quale certamente l’ha dimenticato”. Schizzi di veleno, sì. Ma del resto si sa, tra i due non fu mai amore. Lo slavofilo dei delitti e castighi detesterà sempre quell’Ivàn Sergéevic filo-tedesco e cosmopolita (era un insulto in voga) di cui irriderà il ciuffo leonino, la posa vanesia e la maniera affettata di parlare, in alcune crudeli (ma divertenti) lettere del suo epistolario, consigliatissimo, va da sé, però al momento introvabile a meno di rivolgersi con santa pazienza alle biblioteche, questi eroici avamposti della nostra salute intellettuale; in caso di buona sorte, sarà buono anche il divertimento: ci troverete pettegolezzi, querele, vili richieste, insomma, tutti i calzini sporchi della vita.

  

Ma torniamo alle vanterie. Perché poco oltre, nello stesso articolo, Dostoevskij non si tratterrà da una seconda punzecchiatura, doppiamente feroce perché scoccata nel bel mezzo di una lode, e proprio a quelle “Memorie di un cacciatore” che lesse appena liberato dalla detenzione siberiana. Confessa che gli erano sembrate “deliziose”, sennonché, due righe dopo, eccolo chiarire che sì, certo, deliziosissime, ma in realtà solo perché in quel momento brillava su di lui “il sole delle steppe, cominciava la primavera e una vita nuova: la libertà!”, quasi a dire che, in quella circostanza, gli sarebbe sembrato delizioso anche un promemoria per la tintoria. A chiudere il terribile uno-due, il Fëdor triumphans chiede scusa ai lettori per essersi diffuso così a lungo (quattro pagine) su una sola parola, ma in realtà – chiarisce – la sua dissertazione era destinata soprattutto al dotto compilatore del vocabolario russo del futuro.

  

E io, a questo punto, ho volato con la fantasia – nel passato, ovviamente, perché nel presente va come va, e viviamo soggiogati da un tempo di neologismi fessi, sgrammaticature imperversanti e sopore lessicale generalizzato. Spettatore inerme della decrescita infelice delle lingua, sul mio divano, per un attimo, ho provato a immaginare il contrario, ossia la gioia, il tumulto, l’esaltazione che avrà colto chi era consapevole di contribuire alla crescita felice di una lingua letteraria giovane. E mentre volavo, mi dicevo che avrei accettato ogni cosa, il freddo, la neve, il piombo del cielo, la luce scontrosa delle strade, gli abituri graveolenti, i marciapiedi ghiacciati, il fango primaverile fino alle ginocchia, la mala pietroburghese, gli studenti di Legge invasati, l’ubriachezza perenne di ogni membro della mia famiglia e sì, perfino qualche perdita (lieve) al gioco – tutto, e dico tutto, in cambio della vita. Quella vera. Quella eterna. Quella di una parola creata, che crea il mondo insieme a chi, anche solo per una volta, la pronuncia.

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