Lo Zen e l'arte di annoiare i lettori con libri che sembrano Instagram Stories
Il problema non è quel libro, il problema vero è lo Zen, o meglio, il modo maldestro con cui l’occidentale tentava, e tenta ancora oggi, di infilare l’esotismo per giustificare profondità di pensiero. La morte di Robert M. Pirsig e la motocicletta, ronf.
Roma. Ci sono certe librerie, in certi salotti, che tradiscono tutto. Alcuni volumi sono facili da individuare – Il Piccolo Principe, Il gabbiano Jonathan Livingston – gli altri sono quelli di retaggio scolastico – incontestabili, sfogliati ai tempi del liceo, tipo il Giovane Holden. Ci sono i regali di Natale accumulati negli anni – Il nome della rosa, Va’ dove ti porta il cuore. Ma questo non è un maldestro tentativo di giustificare la bassa affluenza alle fiere dell’editoria. E’ piuttosto una teoria sul perché, durante alcuni decenni, sugli scaffali di un numero considerevole di persone abbia stazionato un romanzo che inizia così: “Senza togliere la mano dalla manopola sinistra vedo dal mio orologio che sono le otto e mezza. Il vento, anche a cento all’ora, è caldo e umido. Chissà come sarà nel pomeriggio, se già alle otto e mezza c’è tanta afa”.
Il problema, naturalmente, non è solo che a leggere “Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta”, oggi, vengono in mente subito i diari di Dibba – deformazione fogliante e millennial. Dice Maurizio Crippa che bisognerà aspettare “Notas de viaje” di Che Guevara (1992) per avere un altro libro iconico-motociclistico simile, e che comunque la manutenzione della motocicletta è uno dei long seller di Adelphi, e fa parte del fascino di Adelphi essere riuscita a venderlo “manco fosse Kafka”. In fondo non è nemmeno tutta colpa di Pirsig: il suo libro ha in qualche modo liberato, anzi, rottamato la letteratura americana di “Sulla Strada”, e ha il merito di aver strapazzato i luddisti dell’epoca, quelli che “odiano la tecnologia”, tutto ciò che è loro incomprensibile proprio come “la meccanica della motocicletta”. In questo unico successo di Pirsig (scrisse un altro libro nel 1991, “Lila: un’indagine sulla morale”, una specie di sequel in barca, un flop) il problema vero è lo Zen. O meglio, il modo maldestro con cui l’occidentale tentava, e tenta ancora oggi, di infilare l’esotismo per giustificare profondità di pensiero e vendere al lettore diciassette giorni di viaggio “iniziatico”, che però non sono molto diversi da una story di Instagram.
Pirsig copiò l’idea da “Lo Zen e l’arte del tiro con l’arco” del filosofo tedesco Eugen Herrigel, un libro del 1948 sul Kyudo: un volume difficile, che non ha niente a che fare con il romanzo, e che racconta il tentativo di avvicinamento di un filosofo occidentale allo zen e alle filosofie orientali. Non c’è niente di naïve nel Kyudo. E invece al libro di Pirsig seguirono una serie di “Lo Zen e l’arte della corsa”, “Lo Zen e l’arte di allevare galline”, “Lo zen e l’arte di fare una torta”, “Lo zen e l’arte di invecchiare bene”, cui fa capo perfino “Lo Zen e l’arte di scopare” di Jacopo Fo, per dire come poi, nell’editoria, le cose possano sfuggire di mano facilmente. Insomma, lasciamo i best-seller alle loro epoche di riferimento, e al prossimo “Lo Zen e l’arte di” sapete a chi dare la colpa.