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Imparare a dimenticare. La Corea secondo lo scrittore Young-ha Kim

Sui giornali che contano Young-ha Kim viene definito uno dei più importanti scrittori coreani della sua generazione. Ha vinto la maggior parte dei premi letterari di Corea, dai suoi libri si traggono film e serie tv e sono state fatte traduzioni un po’ ovunque nel mondo, “soprattutto in Francia, dove hanno pubblicato tutti e sei i miei romanzi, e in America”, dice Kim al Foglio durante una chiacchierata romana all’Esquilino, in via Torino, nella zona più coreana della capitale.
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“Ho scritto per quasi un anno, una volta al mese, un articolo per il New York Times. Non appena mandavo il mio articolo, mi arrivava una trentina di email a qualsiasi ora del giorno e della notte in cui mi si chiedeva di verificare le informazioni. Lo chiamano fact checking. Io odio il fact checking. Io sono uno scrittore!”. Young-ha Kim, coreano, classe 1968, ha lasciato perdere i suoi contributi editoriali sul quotidiano americano pochi mesi fa: “Tra l’altro succedeva sempre che quello che era importante per me sulla Corea non lo era per loro, e viceversa”. Sui giornali che contano Young-ha Kim viene definito uno dei più importanti scrittori coreani della sua generazione. Ha vinto la maggior parte dei premi letterari di Corea, dai suoi libri si traggono film e serie tv e sono state fatte traduzioni un po’ ovunque nel mondo, “soprattutto in Francia, dove hanno pubblicato tutti e sei i miei romanzi, e in America”, dice Kim al Foglio durante una chiacchierata romana all’Esquilino, in via Torino, nella zona più coreana della capitale. Per spiegarsi meglio lui cita Milan Kundera su Kafka: “Il romanzo è una terra in cui viene sospeso il giudizio morale. Il ruolo dello scrittore è scrivere una storia a cui il lettore crederà o no”. E come la mettiamo con Roberto Saviano, e con tutta la polemica su fiction, giornalismo, plagi e verità? “Il premio Nobel di quest’anno è una giornalista, non una scrittrice. I confini ormai sono molto difficili da definire. Io Saviano non lo conosco, ma una cosa è certa: il giornalista fa una promessa ai lettori, la promessa di dire sempre la verità. Quando leggiamo Harry Potter crediamo che Harry voli su una scopa, ma non ci aspettiamo che sia la verità”.

Quando Young-ha Kim è nato, in una città molto vicina al confine con la Corea del nord, il presidente della Corea del sud era Park Chung-hee, il padre dell’attuale presidente Park Geun-hye. Dei suoi primi dieci anni di vita lo scrittore non ricorda un bel niente. A dieci anni un’intossicazione da monossido di carbonio gli provocò la perdita della memoria, ed è per questo che nei suoi libri il tema del ricordo è una costante. “Avevo un vicino che, quando si ubriacava, dimenticava tutto quello che gli era accaduto. Pensandoci bene, la morte mi sembra tanto un bel bicchierone di liquore che ci fa dimenticare una noiosa cena in compagnia. Una cena che noi comuni mortali chiamiamo ‘vita’”, dice il protagonista di “Memorie di un assassino”, il suo ultimo libro pubblicato in Italia da Metropoli d’Asia (con una godibilissima traduzione dal coreano di Andrea De Benedittis). Il protagonista del romanzo è Kim Pyongsu, serial killer poetico e con il male di vivere, a cui diagnosticano l’Alzheimer: “Viviamo in un mondo pieno di informazioni da ricordare. Ed è estremamente faticoso. C’è bisogno di una quantità di cose da dimenticare”. Kim non parla di un’amnesia, ma di un’emancipazione da un sistema folle: “Quando ero ragazzo in tv mandavano in onda un programma che premiava le capacità mnemoniche dei concorrenti. I giovani oggi hanno difficoltà a selezionare le cose importanti che vanno ricordate, perché quelle – e solo quelle – sono la nostra identità”. Secondo Kim è proprio per questo che il suo romanzo ha avuto successo: “La prima volta che il mio editore ha letto il libro mi ha detto che probabilmente non sarebbe piaciuto al pubblico. Invece i giovani hanno riconosciuto l’importanza del tema della selezione dei ricordi”, quella che compie il protagonista del libro, l’anziano serial killer. E in effetti Kim è uno dei migliori ritrattisti della società coreana contemporanea. Da piccolo ha seguìto da vicino la vita militare del padre: “La Corea è ancora molto legata al sistema militare, influenzato dal confucianesimo. Il servizio di leva obbligatoria condiziona la società coreana con un sistema di caste e gerarchie. Per esempio, nelle grandi aziende non esiste comunicazione democratica, e nei posti di potere non ci sono donne (sebbene in Corea siano libere di scegliere la carriera militare). Lo stesso avviene negli ambienti universitari”. Le ferree regole di un sistema militarizzato impongono anche una specie di censura per i ragazzi che svolgono il servizio di leva: “Durante quel periodo non si possono leggere alcuni libri”, dice Kim, per esempio quelli critici con il governo. Ma nella lista dei libri vietati c’è un po’ di tutto, da “23 cose che non ti hanno mai detto sul capitalismo” di Ha-Joon Chang fino a “I cortili dello Zio Sam” di Noam Chomsky. E tu, fino a oggi, sei mai stato censurato? “Io personalmente no, ma succede che questo governo di tanto in tanto agisca con una censura indiretta. Sugli scrittori, per esempio, oppure togliendo o dilazionando i fondi su un progetto che non piace ai politici. Succede”.
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