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Da Kant a Montalbán, ascendenze culturali dei Podemos italiani

Poco Marx, molto Verri. Libri che girano tra Landini e Civati. Che cosa ha in comune, dal punto di vista della formazione culturale, i vari gruppi di Podemos italiani?
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Roma. Gioco dell’estate: che cosa ha in comune, dal punto di vista della formazione culturale, Maurizio Landini con Stefano Rodotà? E Vittorio Agnoletto con Corradino Mineo? E Andrea Alzetta detto “Tarzan”, occupatore di case, con Lorenza Carlassare, “saggia” di ogni kermesse sulla (e per la) Costituzione? E i contestati reduci anni Settanta, Oreste Scalzone e Franco Piperno, con Paolo Flores d’Arcais, uomo di MicroMega che prima sperava in Antonio Di Pietro, poi in Grillo e ora nei Podemos italiani? E Alfonso Gianni, ex sottosegretario bertinottiano di Romano Prodi, con Sandra Bonsanti, la donna che custodisce le madeleine da Palasharp (manifestazione con cui, nel 2011, si chiedevano le dimissioni dell’allora premier Silvio Berlusconi)? E che cosa avranno culturalmente in comune, i demiurghi della “Coalizione sociale”, creatura informe che si sa come parte ma non si sa dove arriva, con il gemello diverso Pippo Civati, deputato fuoriuscito dal Pd ora impegnato nel lancio di “Possibile”, altra realtà post-partitica ma “orizzontale”?

 

Non esiste risposta univoca: che i vari gruppi di Podemos italiani abbiano in comune tutto o niente, la ricerca delle similitudini tra questi e quelli produce stranezze: ecco che si scorge un filo rosso elettivo tra il prof. Rodotà, che da ragazzino attendeva l’uscita del Mondo di Pannunzio, e il non prof. Landini, che da ragazzino distribuiva l’Unità (“hanno entrambi un passato da precoci lettori di giornali”, si sente dire tra gli osservatori). E quando dai trascorsi di Mineo spunta un matematico (il nonno), e da quelli di Rodotà pure (il padre), ecco che gli ottimisti ci vedono un universo di simboli, e l’indizio di una nascosta, comune ascendenza intellettuale – da lì alla comune, futuribile solidità politica il passo non è detto che sia breve, ma tant’è. Ed è tutto un cercare il Bildungsroman culturale della nuova (nuova?) gauche. Solo che ognuno ha il suo. Uno ha studiato Kant, l’altro no. Uno ha letto Heidegger, l’altro Dylan Dog. Né per ora si trova chi sia disposto, come Sergio Cofferati ai tempi d’oro della Cgil, ad elevare Tex Willer a maître à penser. Si scandaglia il passato da giurista di Rodotà, e ci si trova, oltre a Lelio Basso (“maestro” per il prof.), molta Hannah Arendt. “Il diritto di aver diritti” è infatti il titolo di uno dei libri più noti del Rodotà studioso, un tempo anche quirinabile con votazione online e senza. E in molti ricordano il prof. alle presentazioni del volume, quasi commosso nel citare la filosofa de “Le origini del totalitarismo” – ma vai a capire se oggi la Arendt sarebbe d’accordo con i “tà-tà”, i seguaci di Rodotà in piazza, e con il benecomunismo da Teatro Valle ex occupato. Quando non era Arendt, comunque, era Jürgen Habermas: il filosofo veniva sovente citato alle suddette assemblee benecomuniste, dove però poteva capitare che l’oratore tributasse omaggio anche a Norberto Bobbio.

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Ma se è ovvio che non possa essere Bobbio il minimo comune denominatore Rodotà-Landini, la formazione “sul campo” di Landini, saldatore in giovane età dopo gli studi da geometra, non impedisce di pensare che, come azzarda un amico di Rodotà, “nel silenzio di casa sua il professore possa leggere, come Landini, l’ultimo giallo di Manuel Vasquez Montalbán o di Carlo Lucarelli”. Meno certo è se il prof., come Landini, ami alla follia il film “Balla coi lupi”, quello interminabile con Kevin Costner tenente in una specie di Fortezza Bastiani tra gli indiani d’America.

 

Mineo, poi, senatore dissidente del Pd, diventa un rompicapo per i cercatori di comuni ascendenze all’interno della sinistra extra-Pd. Perché oggi il senatore legge l’economista e star gauchiste Piketty, ma nella sua biografia-intervista “Il Caffè amaro” (ed. Imprimatur) si pregia di essere cresciuto “a pane e Kant”, ma pure a pane e Verri (Pietro, il filosofo e scrittore illuminista, dal cui giornale hanno preso nome i vari “Caffè” di Corradino: la trasmissione tv e la suddetta biografia). Eppure Mineo si considera anche figlio dell’arabista Michele Amari e dello storico Virgilio Titone e di Leonardo Sciascia e di Andrea Camilleri (piacerà anche a Landini, essendo giallista?). Non solo: in casa Mineo si leggeva Lenin, ma corretto con Hegel (così dice Mineo nel “Caffè amaro”). Ed era uno studente per così dire “rivoluzionario” nella sua Sicilia, il senatore, ma a Roma disdegnava gli studenti che declamavano il Libretto rosso di Mao. “Bisogna reinventare i caffè dell’illuminismo”, dice nel libro-intervista, e la tesi è evidentemente diffusa nel mondo extra-renziano anche quando si parli di politica estera. Qual è l’antidoto all’Isis?, è stato chiesto agli ospiti del talk-show “Piazzapulita”, due giorni fa, mentre si mostravano i video propagandistici dell’Isis. Un nuovo illuminismo, è stata la risposta di Carlo Freccero. Ma chissà se davvero è Pietro Verri il trait d’union tra mondi di sinistra che vogliono unirsi ma non necessariamente sciogliersi, tra un Paolo Ferrero (comunista e valdese) e un Pancho Pardi (urbanista dei “Girotondi” e filosofo). Di sicuro ha studiato filosofia pure il gemello diverso Civati, ma con specializzazione su Umanesimo e Rinascimento. “Giordano Bruno!”, dice infatti, indicando l’autore da cui non ha “potuto prescindere”. Poi uno scarto, anzi due, a ingarbugliare il non-Pantheon degli aspiranti Podemos italiani: Civati si dice molto legato al “Martin Eden” di Jack London, quello sì Bildungsroman socialista (e drammatico) di un marinaio che combatte con se stesso e con il mondo per diventare scrittore e sposare la bella borghese Ruth. E però oggi non disdegna, Civati, il meno drammatico “anarchismo di Paolo Nori” (quanti dei “tà-tà” lo leggono?). Se davvero vogliono collaborare, i Podemos landiniani con quelli civatiani, dovranno poi tener conto anche del milieu culturale di Gigi Malabarba, sindacalista un po’ campesino (in onore delle lotte sudamericane) e un po’ trotzkista. E peccato che nella gauche cosiddetta nuova non ci sia Moretti, che di trozkista, in “Caro diario”, ci metteva solo il pasticciere del “film musicale nell’Italia degli anni Cinquanta”. 

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