PUBBLICITÁ

La Crisi d'Egitto

Un romanzo di Sciascia per capire lo scontro tra Renzi e Conte

Si intitola "Il Consiglio d'Egitto". Fare carte false pur di ottenere le riforme necessarie

Maurizio Crippa

Nella Sicilia del Settecento la storia della fabbricazione di un falso documento arabo che avrebbe smantellato il potere feudale e reso più moderno il Regno. Ma è un azzardo che non può funzionare. Perché in questo paese vince sempre la forza di non cambiare

PUBBLICITÁ

Nella grande messe di articoli, ricordi, saggi che hanno celebrato nelle scorse settimane i cento anni della nascita di Leonardo Sciascia cesellandone l’attività di scrittore, di archeologo del sapere, di intellettuale engagé, di giornalista e uomo politico, manca una qualità che – confidando nell’indulgenza del Maestro di Racalmuto – gli si potrebbe tributare. Sciascia sarebbe stato anche un grande cronista parlamentare, di quelli col taccuino in Transatlantico, quelli che oltre alle parole tracciavano schizzi e vignette e poi ne ricomponevano il racconto. Una commedia, un romanzo, un gioco di specchi. La crisi-non crisi di governo che ci siamo appena lasciati alle spalle, o nella quale forse siamo tuttora immersi, è l’immagine da commedia tragica di una nazione irresolubile, di una immobilità fluida. Sciascia l’aveva narrata alla perfezione, questa crisi nella sua essenza italiana, molti anni fa. Facendo di fatti veri un apologo più universale. Il Consiglio d’Egitto, il suo secondo romanzo, uscì nel 1963. Ma a leggerlo in questi giorni e prendendolo alla leggera (ci perdonerà il Maestro), cioè lasciando al loro posto la precisione dello scavo storico, la stratificazione di filosofia, religione e illuminismo, Spirito delle leggi – tutte cose, si sa, estranee al dibattito attuale – è il racconto perfetto della crisi del Conte bis-quasi ter.

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


Nella grande messe di articoli, ricordi, saggi che hanno celebrato nelle scorse settimane i cento anni della nascita di Leonardo Sciascia cesellandone l’attività di scrittore, di archeologo del sapere, di intellettuale engagé, di giornalista e uomo politico, manca una qualità che – confidando nell’indulgenza del Maestro di Racalmuto – gli si potrebbe tributare. Sciascia sarebbe stato anche un grande cronista parlamentare, di quelli col taccuino in Transatlantico, quelli che oltre alle parole tracciavano schizzi e vignette e poi ne ricomponevano il racconto. Una commedia, un romanzo, un gioco di specchi. La crisi-non crisi di governo che ci siamo appena lasciati alle spalle, o nella quale forse siamo tuttora immersi, è l’immagine da commedia tragica di una nazione irresolubile, di una immobilità fluida. Sciascia l’aveva narrata alla perfezione, questa crisi nella sua essenza italiana, molti anni fa. Facendo di fatti veri un apologo più universale. Il Consiglio d’Egitto, il suo secondo romanzo, uscì nel 1963. Ma a leggerlo in questi giorni e prendendolo alla leggera (ci perdonerà il Maestro), cioè lasciando al loro posto la precisione dello scavo storico, la stratificazione di filosofia, religione e illuminismo, Spirito delle leggi – tutte cose, si sa, estranee al dibattito attuale – è il racconto perfetto della crisi del Conte bis-quasi ter.

PUBBLICITÁ

 
Nella Sicilia di fine Settecento, immobile e corrosa dai suoi stessi secoli, eppure percorsa dai venti della modernità parigina, si scontrano, tra salotti e chiacchiere a piazza Marina, tra sotterfugi e intrighi, due Sicilie. Due Italie. Da un lato gli aspiranti riformatori, a volte solo orecchianti illuministi, che vorrebbero cambiare le leggi, smantellare il privilegio, svecchiare la burocrazia. Entrare finalmente in Europa. Dall’altra la conservazione, la nobiltà feudale e il clero, che hanno solo paura della rivoluzione, dei diavoli giacobini, di perdere il privilegio e la rendita. Chi sogna di riformare non ha strade. Se non quella di inventare di sana pianta un altro ordine, di ordire una grande truffa, insomma taroccare letteralmente le carte. Tentare il grande bluff. Il caso si presenta con il passaggio a Palermo dell’ambasciatore del Marocco a Napoli, cui viene mostrato un raro manoscritto  arabo, e per l’occasione servono i servigi di don Giuseppe Vella, l’unico in città con fama di conoscere l’arabo: era vissuto a Malta, cappellano dell’Ordine. Una mezza figura che arrotondava la giornata come “numerista” del lotto, “smorfiatore di sogni”. L’uomo adatto a fare l’impresa, preparare un clamoroso falso che cambi le regole immutabili. Sarà lui a manomettere il codice arabo, a falsificarlo fino a trarne un altro libro, il “Consiglio di Sicilia”, in cui si narra come al tempo della dominazione araba le leggi che regolavano la società e la nobiltà erano assai diverse. La creazione dal nulla di una diversa storia di Sicilia. L’operazione pare funzionare, per un po’. Ingolosito dal suo successo di falsario, il Vella ormai diventato riverito abate s’immagina addirittura di produrre un altro codice arabo, stavolta inventato di sana pianta, il “Consiglio d’Egitto”, una portentosa riscrittura giuridica della storia in grado di “incenerire tutta la dottrina giuridica feudale, tutto quel complesso di dottrine che la cultura siciliana aveva in più secoli, ingegnosamente, con artificio, elaborato per i baroni, a difesa dei loro privilegi”.  

 
La storia ricostruita da Sciascia, per quanto incredibile, è vera. Durò quindici anni, gli anni in cui il tentativo di attuare qualche riforma nell’isola fu portato avanti, fidando anche nel mezzo lasciapassare del viceré Caracciolo, e chissà, in quello superiore del re di Napoli. E allora poteva anche andar bene un qualche gioco di carte contraffatte per sfidare sul  loro stesso terreno coloro che, seduti negli scranni dei tribunali e delle sovrintendenze del re, avevano il potere delle leggi, del governo, delle carte.

 
La mossa del cavallo di Matteo Renzi, il ritiro delle ministre, il tentativo di forzare il governo, di provocare un cambiamento nel bel mezzo dello stallo, non è un falso fabbricato da uno “smorfiatore di sogni”. Ovvio. Ma ha in sé la stessa disperata sensazione dell’azzardo. Di chi ha visto “tante volte la verità confusa e la menzogna assumere le apparenze della verità”, e si gioca un’ultima carta. Che altro sono la lettera sul Recovery, i conti e gli appunti sulla gestione della crisi, i richiami a quel che dice l’Europa? Non sono falsi, ma cosa sono in fondo se non il tentativo di confutare con altre carte il pasticcio degli appunti, dei comitati, dei dpcm? Di vincere una partita di riforme che dura da troppi anni. Gli arabeschi del “Consiglio d’Egitto” non verranno mai presi sul serio. Ma corre nel libro la stessa disperazione di oggi, perché anche le carte di Renzi non verranno mai prese sul serio, sono già annegate nel ciclo del glucosio. Tanto contano sono i numeri della seconda chiama, la capacita di assestarsi del sistema. Dall’altra parte di questa crisi-non crisi non c’è soltanto il viceré Giuseppe Conte con la sua ristretta corte. C’è l’altro paese della conservazione immota. Una classe politica che ha paura soltanto di perdere il suo ruolo, a tutto è disposta purché nulla cambi.  Perché caduto un Cesa se ne fa un altro. Che preferisce distribuire ristori al popolino. Già, il popolo. Che nella storia di Sciascia ha il suo ruolo, e un patto di sangue coll potere feudale. E invece quei diavoli rivoluzionari, e il viceré illuminista, volevano abolire addirittura la festa di Santa Rosalia. Che cosa è stata questa crisi, così sfinente, se non lo scontro barocco, tra qualcuno che buttava nel piatto del governo persino l’ultimo bluff, l’astensione estrema, e una maggioranza che si aggrappava a tutto, alle regole parlamentari e alla minaccia giacobina (ops, sovranista) nel paese. E affidandosi alla famosa maggioranza relativa al di là della quale c’è solo il governo percepito. Comunque la si voglia vedere, raccontare, la storia della crisi-non crisi di oggi è la comica finale della storia tragica e veritiera raccontata da Sciascia sessant’anni fa, scavando nella storia della Sicilia, di duecento anni fa.

PUBBLICITÁ

 
Il truffatore don Vella, divenuto abate di S. Pancrazio, se la caverà.  Sul patibolo, ad aver la testa mozzata dopo aver subito innumerevoli giri di corda e la tortura col fuoco e infine con il lardo bollente sarà l’avvocato Francesco Paolo Di Blasi, illuminista e uomo onesto, condannato come orditore di uno sventato complotto e di una rivolta, e che per un certo tempo aveva guardato di buon occhio ai falsi provvidenziali. Oggi il lardo bollente non si usa più, buon per Renzi esiste solo la condanna politica e la gogna mediatica. Ma si poteva mai vincere, la partita della crisi d’Egitto?
 

Di più su questi argomenti:
PUBBLICITÁ