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La denuncia dell'Ance: serve un piano nazionale di edilizia giudiziaria

Annalisa Chirico

Stavolta le risorse ci sarebbero: almeno una quota dei 209 miliardi destinati all’Italia nell’ambito di Next Generation EU potrebbe essere utilizzata per “costruire” la giustizia partendo dal suo “hardware”

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L’emergenza giustizia, in Italia, è anche emergenza materiale: aule fatiscenti, tribunali decadenti, palazzacci diroccati che richiederebbero un’opera profonda di ristrutturazione e ammodernamento. Ad accendere i riflettori sulla necessità di “costruire” giustizia, nel senso letterale del termine, sono i costruttori dell’Ance che, con il loro presidente Gabriele Buia, hanno invitato il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ad un confronto con avvocati e magistrati per imprimere, se si riesce, una svolta: basta rinvii, si ponga mano a un piano nazionale di edilizia giudiziaria per i circa 926 immobili in gestione al ministero di via Arenula. Sicurezza e salubrità dei luoghi, efficienza del servizio, decoro e solennità della funzione: le ragioni per intervenire abbondano. Il simbolismo del processo, del resto, ne esce ammaccato: come una toga macchiata o una bilancia spezzata, così l’edificio che ospita la dialettica tra accusa e difesa dovrebbe rispondere a standard minimi di decenza e ordine, ma la situazione italiana è ben nota a chiunque sia entrato almeno una volta in un tribunale: strutture piccole, mal distribuite e non a norma, scarsamente accessibili per l’utenza, assai poco digitali, per nulla adeguate al valore reale e simbolico del posto.

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L’emergenza giustizia, in Italia, è anche emergenza materiale: aule fatiscenti, tribunali decadenti, palazzacci diroccati che richiederebbero un’opera profonda di ristrutturazione e ammodernamento. Ad accendere i riflettori sulla necessità di “costruire” giustizia, nel senso letterale del termine, sono i costruttori dell’Ance che, con il loro presidente Gabriele Buia, hanno invitato il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ad un confronto con avvocati e magistrati per imprimere, se si riesce, una svolta: basta rinvii, si ponga mano a un piano nazionale di edilizia giudiziaria per i circa 926 immobili in gestione al ministero di via Arenula. Sicurezza e salubrità dei luoghi, efficienza del servizio, decoro e solennità della funzione: le ragioni per intervenire abbondano. Il simbolismo del processo, del resto, ne esce ammaccato: come una toga macchiata o una bilancia spezzata, così l’edificio che ospita la dialettica tra accusa e difesa dovrebbe rispondere a standard minimi di decenza e ordine, ma la situazione italiana è ben nota a chiunque sia entrato almeno una volta in un tribunale: strutture piccole, mal distribuite e non a norma, scarsamente accessibili per l’utenza, assai poco digitali, per nulla adeguate al valore reale e simbolico del posto.

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Grazie allo studio curato da Ance, e presentato insieme al direttore dell’Agenzia del Demanio Antonio Agostini e al numero uno dell’Anci Antonio Decaro, scopriamo che attualmente manca una banca dati sugli immobili giudiziari, in altre parole, in assenza di un’anagrafe pubblica dell’edilizia giudiziaria, nessuno possiede informazioni puntuali sulle caratteristiche delle strutture in piedi (epoca di costruzione, volumi, esposizione ai rischi naturali etc.). Nel frattempo, si moltiplicano i casi di crolli e incidenti (l’ultimo episodio “eccellente” è accaduto al tribunale di Catania quando una lastra di marmo si è staccata dal soffitto e ha colpito al piede l’avvocato Giulia Bongiorno mentre assisteva il super imputato Matteo Salvini nel procedimento Gregoretti). E che dire dell’emergenza Covid che impone interventi urgenti per il rispetto dei protocolli di sicurezza? Stavolta le risorse ci sarebbero: almeno una quota dei 209 miliardi destinati all’Italia nell’ambito di Next Generation EU potrebbe essere utilizzata per “costruire” la giustizia partendo dal suo “hardware”: il governo italiano lavora alacremente all’elaborazione del Piano nazionale per la ripresa e la resilienza che, tra le varie missioni, include la transizione ecologica e digitale, la mobilità, l’equità sociale e la salute. Per avere accesso ai fondi, l’Europa ci chiede di riformare, tra le altre cose, proprio la giustizia, sia sul piano dell’efficienza (i tempi elefantiaci dei processi e la scarsa propensione a investire sono due facce della stessa medaglia) che delle infrastrutture. 

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Quanto alle competenze e a chi dovrebbe far cosa (vexata quaestio in Italia…), dal 2015 la competenza è in capo al ministero della Giustizia per quanto concerne le nuove costruzioni e gli ampiamenti (le cosiddette “cittadelle giudiziarie”), la manutenzione sotto i 5mila euro e gli interventi di messa a norma e di vulnerabilità sismica; all’Agenzia del Demanio spettano la manutenzione ordinaria e straordinaria. In questi anni, le difficoltà di raccordo con i Provveditorati alle Opere pubbliche, insieme alle lungaggini nelle fasi di progettazione e affidamento dei lavori, hanno complicato ogni tentativo di svecchiare l’esistente, e su questo fronte l’ultimo dl Semplificazioni non è stato certo risolutivo: se, da un lato, ha esteso la procedura “in deroga” fino al 31 dicembre 2021 (con un fiorire di commissari cosiddetti “sblocca cantieri”), dall’altro ha mantenuto invariato il groviglio di procedure a monte della gara dove, secondo Ance, si anniderebbero oltre il 70 percento delle cause di blocco delle opere. “Più che una better regulation si è introdotta una vera e propria deregulation – commenta Edoardo Bianchi, vicepresidente di Ance – Per carità, certe misure, come la nuova disciplina del danno erariale o dell’abuso d’ufficio, vanno nella giusta direzione di premiare il fare ma alcune norme sui lavori pubblici rischiano di alterare per sempre la concorrenza e la trasparenza del mercato”.

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