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Da scandalo a orgoglio italiano. Il Mose salverà Venezia

Giorgio Barbieri

Cinquant’anni di gestazione, oltre sei miliardi di costo: così una grande opera si è trasformata in una delle più efficaci fotografie del paese

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Quando le 78 paratoie gialle sono emerse dall’acqua, separando la laguna dal mare che montava, il Mose si è trasformato in un attimo da scandalo a orgoglio italiano. Per la prima volta nella storia di Venezia piazza San Marco sabato scorso è rimasta asciutta nonostante la marea avesse raggiunto il picco di 132 centimetri. E se ieri si è detto soddisfatto perfino Arrigo Cipriani, patron dell’Harry’s Bar e tra i più critici nei confronti della grande opera, vuol dire che davvero Venezia, dopo l’anno nero dovuto prima all’alluvione del novembre scorso e poi alla pandemia, può iniziare a reinventare sé stessa diventando anche un modello per l’intero paese che vuole ripartire. Nel coro di elogi per la “giornata storica” va però sottolineata la voce del Patriarca Francesco Moraglia che ha esortato tutti a non dimenticare ciò che è accaduto, sottolineando che “un giorno di speranza e di attesa” deve anche suscitare “riflessioni sul fatto che questo risultato poteva essere ottenuto anche in tempi molto più brevi”.

 

Perché il Mose, con i suoi cinquant’anni di gestazione e il suo costo che ha sfondato i sei miliardi di euro, si è trasformato in una delle più efficaci fotografie del paese: idee all’avanguardia intralciate da una burocrazia asfissiante; lavori che durano all’infinito per permettere l’estrazione di enormi quantità di tangenti e infine l’immancabile corsa contro il tempo per portare a termine l’opera quando ormai tutto sembra perduto. Grazie al Mose l’Italia ha però dimostrato di essere in grado di proteggere un bene inestimabile come Venezia che, finalmente libera dall’incubo delle acque alte, può diventare un modello per tutte le città d’arte rimaste improvvisamente senza i soldi del turismo a buon mercato sparito a causa del Covid.

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Ma vale la pena ripercorrere la storia del Mose che ha inizio nel 1966 quando si ipotizza di separare la laguna dal mare. Su Venezia si è appena abbattuta l’Aqua granda, una delle più spaventose alluvioni degli ultimi secoli. Dieci anni dopo un gruppo di studiosi propone di proteggere la città dalle acque alte eccezionali con un sistema di dighe mobili installate alle bocche di porto delle isole che separano la laguna dal Mar Adriatico (il Mose, Modulo sperimentale elettromeccanico). Nel 1986, è quindi trascorso un altro decennio, il presidente del Consiglio Bettino Craxi annuncia da Palazzo Ducale che i lavori per la salvaguardia della città sarebbero inderogabilmente terminati entro il 1995. Ci vorranno altri diciassette anni prima che partano i cantieri. Ne trascorrono ancora undici – intanto sono passati quasi cinquant’anni dall’alluvione del 1966 – e nel 2014 l’opera sembra essere arrivata in porto. Sembra, perché il 4 giugno di quell’anno uno tsunami giudiziario decapita il Consorzio Venezia Nuova (Cvn), il gruppo di imprese alle quali trent’anni prima una legge speciale aveva affidato, senza che fosse stata esperita un’asta pubblica, i lavori di costruzione del Mose e di salvaguardia della laguna.

 

Le indagini dei magistrati veneziani ipotizzano quanto in molti a Venezia avevano intuito da tempo. I tentacoli del Consorzio Venezia Nuova si erano estesi ovunque: a Venezia, nella Regione Veneto e nei ministeri a Roma. Non per accelerare le procedure e portare a termine l’opera nei tempi previsti, ma per garantire la propria sopravvivenza. Finiscono agli arresti il sindaco Giorgio Orsoni, un ex generale della Guardia di Finanza, un magistrato della Corte dei conti e due ex presidenti del Magistrato alle Acque, Patrizio Cuccioletta e Maria Giovanna Piva. Ai domiciliari anche l’ex presidente della Regione Veneto, e allora deputato, Giancarlo Galan.

 

Per effetto dell’indagine la costruzione del Mose rallenta. Matteo Renzi commette l’errore di credere sia sufficiente affidare la questione all’Anac di Raffaele Cantone e chiudere un’istituzione storica come il Magistrato alle Acque. Così alla guida del Consorzio si succedono quattro commissari e, dopo l’alluvione del novembre 2019, un supercommissario, tutti nominati dal governo. A fronte della previsione di spesa del 1988, quando è stato provato il prototipo, di non più di 2 miliardi (cifra espressa in euro attuali), poi salita a 2,8 nei successivi nove anni, il Mose ha già assorbito 6,4 miliardi di euro. A questi ne andranno aggiunti (secondo l’ultima stima del ministero delle Infrastrutture) altri 5 per la gestione e manutenzione ordinaria nell’arco della vita presunta dell’opera: 100 milioni di euro l’anno per cinquant’anni. Inevitabile domandarsi come sia potuto accadere in un paese i cui ingegneri e le cui imprese hanno realizzato alcune delle più straordinarie infrastrutture al mondo. Aldo Moro inaugurò l’Autostrada del Sole nell’ottobre del 1964. Per costruire 759,6 chilometri di un’autostrada a quattro corsie con viadotti e gallerie erano stati impiegati otto anni con un costo (in euro di oggi) di circa 4 miliardi, poco più della metà del Mose.

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La prova di sabato ora permette a Venezia di cercare di ricostruire la sua normalità in seguito alla marea del novembre 2019 e al lungo lockdown provocato dal Covid-19. E’ comprensibile che i veneziani non aspettino altro, ma sarebbe un errore non fermarsi a riflettere su quanto è accaduto in questo anno horribilis. A Venezia, come dappertutto nel mondo. L’immagine dell’acqua che di nuovo inondava i campi è stata accostata sulle televisioni di tutto il mondo alle immagini dei pesci tornati in Canal Grande. Senza più moto ondoso e navi da crociera la natura si è presa la rivincita con una rapidità sorprendente. Anche i veneziani ne sono stati sorpresi. E allora: è possibile conciliare la sopravvivenza di Venezia – perché è chiaro che il sentiero sul quale era incamminata l’avrebbe presto portata all’estinzione – con una città che deve rimanere aperta, garantendo lavoro ai suoi abitanti e un futuro ai suoi giovani?

 

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Ma deve essere altrettanto chiaro che non sarà il Mose a risolvere i problemi di una città che anno dopo anno sta perdendo i suoi abitanti (i residenti sono sotto le 53 mila unità, con una perdita del 70 per cento della popolazione rispetto al 1951). Fortunatamente il “Progetto Venezia” che il governo italiano probabilmente invierà a Bruxelles nell’ambito del Recovery fund dovrà passare il vaglio della Commissione europea. Senza la sua approvazione il denaro non arriverà e i progetti non partiranno. E se si leggono i criteri che la Commissione europea seguirà nel vaglio dei progetti presentati dagli stati membri, la resilienza, intesa come sostenibilità ambientale, è in cima alla lista: “Sostenere la transizione verde verso un’economia sostenibile e climaticamente neutra attraverso i fondi dello strumento Next Generation Eu”. Il punto di partenza è semplice: per evitare di diventare una nuova Disneyland Venezia deve prima di tutto ritrovare i suoi abitanti. Bisogna creare le condizioni per il ripopolamento della città, e poi lasciar decidere ai cittadini il loro futuro.

 

Così come il Covid, fortunatamente, induce a riflettere sul futuro di Venezia, e offre un’occasione per cambiarlo, la pandemia può avere simili effetti sull’Italia. Il modo in cui molti pensano all’utilizzo dei fondi che riceveremo dall’Europa è guardando indietro: finalmente, pensano, potremo realizzare tutti quei progetti che per anni non avevamo le risorse per realizzare.

 

La storia di un’opera che, nonostante la sua visibilità internazionale, prima ancora di essere conclusa ha fatto spendere miliardi di euro ai cittadini, è emblematica di un problema più generale e oggi centrale per il nostro paese. Ci apprestiamo a ricevere, tramite l’Unione europea, una quantità straordinaria di finanziamenti, che dovremo spendere per affrontare nodi che da decenni frenano la crescita dell’Italia. Ci riusciremo? Oppure anche in questo caso, come è accaduto nella Venezia del Mose,  il denaro arricchirà chi è stato più abile nel “corrompere le leggi”, mentre i problemi, dalla scuola alla giustizia, rimarranno invariati?

 


 

Giorgio Barbieri ha scritto con Francesco Giavazzi “Salvare Venezia. Il Mose: 50 anni di ritardi e sprechi. Una lezione per l’Italia che vuole ripartire” (Rizzoli, 2014).

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