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Don't Look Up è la commedia del quinto potere

Andrea Minuz

C’è pure un po’ di Balzac nella pellicola di Adam McKay. Il film funziona non come metafora del cambiamento climatico, ma perché è un’analisi spietata del giornalismo, tra like e intrattenimento

Tutti quelli che, sentendosi assai intelligenti, scrivono sui social “meritiamo l’estinzione” avranno probabilmente amato “Don’t Look Up”. Il film, del resto, parla anche di loro. Tutti quelli che la sanno lunga vi avranno invece spiegato l’ipocrisia, il doppiogiochismo, la mefistofelica astuzia di “Don’t Look Up”: mentre ridete per la presa in giro e le battute sugli algoritmi, Netflix cattura i vostri dati (peraltro non li prende affatto in giro, nella storia gli algoritmi funzionano benissimo).

Poi, naturalmente, ci sono gli spiegatori di metafore: l’asteroide è il cambiamento climatico, oppure il Covid, il trumpismo, il populismo, il profitto, il rovescio del capitalismo, la sua fine sempre imminente, forse il Pnrr che non sapremo gestire. Chissà. La forza del film di Adam McKay è tutta qui. Destinato a essere citato in chissà quanti editoriali, è perfetto per quel generatore di discorsi che è diventato ormai Netflix, quasi più un social network che una piattaforma di streaming. Difficile aggiungere qualcosa a un dibattito torrenziale (i dibattiti sembravano scomparsi, ma non si è mai parlato così tanto di film come da quando non si va più al cinema). I riferimenti, le ispirazioni e gli omaggi più evidenti li aveva del resto tirati fuori già McKay nel giro di interviste durante il tour promozionale. In “Don’t Look Up” c’è la follia del potere e l’apocalisse di “Dottor Stranamore” (nucleare o ambientale, poco cambia), c’è la critica al cinismo dei giornali de “L’asso nella manica” di Billy Wilder, c’è l’attacco al sistema dei media di “Quinto Potere”, con personaggi all’ultimo stadio della nevrosi, come l’Howard Beale di Paddy Chayefsky. Naturalmente se ne possono aggiungere altri: “Mars Attacks”, oppure, “L’ultima spiaggia” di Stanley Kramer, del 1959, altra parata di star alle prese con una distopia fantapolitica e una minaccia di estinzione (ma “Don’t Look Up” è anche la cosa più vicina a “Infinite Jest” di David Foster Wallace vista sin qui al cinema).

Se però abbandonate per una sera Netflix, se avete la pazienza di resistere due ore e un quarto dentro a un cinema con una Ffp2 a prezzo calmierato, troverete anche delle sorprendenti analogie con Balzac, tornato in sala in questi giorni con le sue “Illusions perdues”. Abbandonate i pregiudizi verso i film in costume, l’Ottocento e gli adattamenti da celeberrimi romanzi di centinaia di pagine. L’esperienza può essere invece assai consolante: la commedia climatica o pandemica di McKay diventerà una variante della cara, vecchia “comédie humaine”.

All’inquietante gioco di specchi tra “Don’t Look Up” e noi si potrà aggiungere un più rassicurante, vabbè, ma infondo siamo sempre stati così. Lo si è letto infatti in ogni giornale: “Don’t Look Up” siamo noi. “Don’t Look Up” parla di noi. Nessuno si senta escluso. Un allarme, un monito, un’amissione di colpevolezza collettiva. Sessant’anni fa, recensendo “La dolce vita”, in mezzo a un pandemonio politico, tra minacce di sequestro, scomuniche del Vaticano e lotte furibonde tra dolcevitisti e antifelliniani, Indro Montanelli scriveva più o meno la stessa cosa: “Siamo noi quei tipi? Sì, siamo noi, Dio ci perdoni”. Montanelli ce l’aveva con i giornalisti e gli intellettuali messi in scena da Fellini dentro quel grande, scintillante specchio deformante. Si era riconosciuto in quella vacuità, quel narcisismo, quel cinismo senza scrupoli, in quella devozione alla grande macchina dell’intrattenimento (mentre il Los Angeles Times e il New York Times oggi si stizziscono e rimandano indietro la satira di McKay). Anche Fellini, Flaiano e Tullio Pinelli pescavano a piene mani da Balzac: l’arrivo a Roma dalla provincia, come la Parigi agognata nella campagna di Angoulême, il conflitto tra l’arte e il profitto, il dominio della pubblicità e del gossip, e Mastroianni che, come Lucien de Rubembré, abbandona ogni velleità intellettuale per darsi anima e corpo al giornalismo più effimero.

Ecco il paradosso: sia quando si vuole rappresentare la corruzione morale dei tempi moderni, sia quando si celebra l’epica del riscatto della democrazia (come in “Tutti gli uomini del Presidente” o “The Post”) si parte sempre da lì: dai giornali e dai giornalisti. Nei film che hanno a che fare col mondo del giornalismo chi scrive in genere sorveglia la nostra libertà, mentre chi lavora per tv e media pensa solo allo share e agli inserzionisti. Questa distinzione, naturalmente, non ha più senso. In “Don’t Look Up”, nella prestigiosa redazione di un fantomatico New York Herald, si prende molto sul serio il numero di like ai meme più scemi. C’è il guru della carta stampata, il boss del più prestigioso e autorevole giornale americano che molla subito la notizia dell’asteroide di fronte al crollo di visualizzazioni. C’è il blogger rampante che scarica la fidanzata per uno scoop che s’intitola, “Avete presente la pazza che crede che moriremo tutti? Ci andavo a letto insieme”. Ci sono Cate Blanchett e Tyler Perry, la coppia di conduttori televisivi di un qualsiasi talk show, dove il servizio su una cometa che punta dritto contro di noi vale assai meno delle corna di Ariana Grande. Tutti insieme in un’unica grande commedia umana dell’informazione.

Prima di occuparsi di temi seri e ambiziosi, come la crisi finanziaria (“The Big Short”), la vicenda di Dick Cheney (“Vice”) o la fine del mondo, a metà degli anni Novanta, Adam McKay è stato un autore del “Saturday Night Live”. Ha esordito al cinema in salsa demenziale, insieme a Will Ferrell, con “Anchorman”, un film su un conduttore televisivo degli anni Settanta, pieno di battute divenute di culto in America, ma poco conosciute da noi, che ha generato poi un seguito di grande successo. In “Don’t Look Up” ha alzato il tiro, a cominciare dal budget a disposizione, ma, come nei suoi primi film demenziali, anche in questo apologo morale il mondo dell’informazione e i network televisivi sono decisivi.

Anche Balzac, com’è noto, era ossessionato dai giornali. Ai giornalisti dedicò un pamphlet satirico e irriverente (“Les journalisties. Monographie de la presse parisienne”), una galleria di tipi umani e professionali, “il giornalista-uomo-di-Stato”, il “nientologo”, “l’opinionista”, che si ritrovano, immutati, ancora oggi. Manca solo il giornalista di mafia, il cronista d’inchiesta sempre a caccia di “Cosa nostra”, specie quando non c’è. Ci hanno però pensato Ficarra e Picone con la serie “Incastrati” e il personaggio di Sergio Frisca, formidabile giornalista d’assalto che rimpiange “le belle guerre di mafia di una volta” e incornicia i suoi servizi dentro iperbolici cliché in stile “Montalbano” (“un omicidio misterioso, in una Sicilia tanto enigmatica quanto lapalissiana”). Anche in Balzac saltano le distinzioni morali o artistiche tra scrittura letteraria e giornalistica. Tutto sembra convergere nella stessa macchina di crudeltà, cinismo e finzioni: “Il giornalismo è divenuto uno strumento dei partiti” e “da strumento è diventato commercio, e come tutti i commerci è senza fede né leggi” (quegli stessi commerci in cui il Balzac, imprenditore e editore, era andato incontro a clamorosi fallimenti).

Questo adattamento cinematografico diretto da Xavier Giannoli si prende molte libertà da quella che lo scrittore francese definiva “l’opera capitale” della comédie humaine (che è l’unico modo per affrontare testi del genere). Taglia corto sulla prima parte, ambientata in provincia, e ci porta subito nel grande, sontuoso capitolo centrale delle “Illusions”, “Un grand’uomo di provincia a Parigi”, in quel frenetico turbinio di critici, editori, giornalisti che anima una “nuova aristocrazia chiamata denaro”. Si sbarazza della combriccola degli asceti letterari del “Cénacle” di D’Arthez, e mostra Lucien alle prese con quell’“abisso di iniquità, menzogne e tradimenti” che è il nuovo giornalismo fondato sulla pubblicità. Visti insieme, la nascente industria culturale in cui, carico di speranze, prova a farsi strada il giovane poeta di Angoulême, e il carrozzone mediatico che tra euforie e risate racconta l’arrivo dell’asteroide si assomigliano parecchio. Del resto, come ricorda Alessandro Piperno nella prefazione all’ultima edizione Mondadori del romanzo, cosa ci racconta “Illusioni perdute” se non un “meraviglioso itinerario di autodistruzione?” Lucien si illude che Parigi sarà sensibile al suo talento letterario, come lo scienziato di provincia interpretato da Di Caprio è convinto che la Casa Bianca e la tv saranno al suo fianco per scongiurare la fine del mondo, insieme, al servizio della democrazia e della verità. Resteranno entrambi delusi. Giunti dietro le quinte della grande letteratura, o delle redazioni dei programmi televisivi, vedono finalmente “i meccanismi di tutte le cose”, come li chiama Balzac: “A Parigi ci sono dazi su tutto, tutto si vende, tutto vi si fabbrica, perfino il successo”. Perfino la fine del mondo, potremmo aggiungere noi. Se Lucien scopre “i fili che muovono l’editoria e la cucina della gloria”, il professor Mindy scopre che le regole del gioco dell’informazione e della politica non si sospendono neanche per un’emergenza planetaria. Servono storie, applausi, lacrime, eroi, scoop. Servono ironia e leggerezza per non appesantire troppo la notizia. Il pubblico potrebbe restarci male.

I giornalisti di Balzac devono essere sprezzanti anche di fronte a un libro o uno spettacolo formidabili, quelli di “Don’t Look Up” devono essere divertenti, ironici, leggeri, anche di fronte all’Apocalisse. Lo scorso anno, davanti alle immagini dell’assalto a Capitol Hill, l’ansia per le sorti della democrazia americana si mescolava a un fiume inarrestabile di meme e battute sullo sciamano e un golpe che sembrava in effetti messo su dalla versione “alt-right” dei “Village People”, anche se si è trattato della cosa più vicina a un colpo di Stato in una democrazia occidentale. La nostra attenuante è che la realtà si è messa ormai da tempo a fare concorrenza spietata alla satira. Ma il problema resta. E’ ancora possibile separare il ridicolo dal tragico, il divertimento dal ragionamento? “Don’t Look Up” dice di no. La prima incursione dei due astronomi in tv è in effetti magnifica. Sembrano catapultati dentro una puntata di “Una pezza di Lundini”. Messo insieme ai dilemmi sentimentali di una influencer, il linguaggio della scienza, coi suoi dati, i suoi numeri, le sue questioni complesse, è squalificato in partenza. Ci vogliono “storie”, “sentimenti”, “personaggi”. Ci vuole una “polemica” che, come ricorda Balzac, “è il piedistallo delle celebrità”.

E’ insomma consolante ricordarci che nell’Ottocento c’erano già la post-verità, gli applausi finti, l’infotainment e le fake news, che in quegli anni si chiamano “canards” (si spiegano così le anatre che nel film scorazzano libere nelle redazioni dei giornali, incomprensibili però nella traduzione italiana, “bufale”). Fatti che hanno l’aria di essere veri ma che “ci si inventa per colorire la cronaca di Parigi quando è sbiadita”. “Una trovata di Franklin”, spiega Balzac nelle “Illusions”, “che ha inventato il parafulmine il canard e la repubblica”. Un giorno si dovrà “innalzare il canard a livello politico”, come scrive con grande anticipo sui tempi. Ed eccoci qui.

Come film sul cambiamento climatico, “Don’t Look Up” è sin troppo didascalico. Ma come film sulla perdita di complessità del nostro linguaggio, sul trionfo isterico dell’intrattenimento come unico orizzonte condiviso, su un giornalismo condannato a inseguire meme e like funziona molto meglio. Adam McKay ha raccontato che all’inizio voleva fare un film assai netto sul “climate change”. Poi, durante la lavorazione, si è fermato per quattro, cinque mesi a causa del Covid. Quando ha ripreso in mano il copione gli sembrava un’altra cosa. “Don’t Look Up” era diventato una storia sul “modo in cui le nostre linee di comunicazione sono state sfruttate, rotte, distorte e manipolate”. Non riguardava più il clima, la pandemia o la disparità di reddito, ma “il fatto che noi non siamo più davvero in grado di parlarci in modo pulito e chiaro. Le notizie devono essere piacevoli o stimolanti. Gran parte della nostra cultura è diventata un argomento di vendita”. Una frase che sarebbe piaciuta a Balzac.

 

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