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Contro l'insalatismo

Camillo Langone

Mettere al centro della tavola l’insalata significa mettere ai margini l’uomo, il vero uomo

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Il sale fa male e loro esaltano l’insalata, piena di sale fin dal nome. Loro ossia i rivoluzionari dell’insalata che poi sono, non a caso, rivoluzionarie. La prima è Bee Wilson, che si chiamerebbe Beatrice se non avesse tritato l’anagrafe com’è solita fare coi cavoletti di Bruxelles. E’ una gastronoma inglese il cui grosso articolo apparso sul Wall Street Journal è da considerarsi il manifesto del movimento e infatti il titolo squilla forte: “The Great American Salad Revolution”. L’incipit mi ha ricordato quello celeberrimo di Karl Marx: “All’inizio del 2021, il piatto che mi ritrovo a desiderare di più è l’insalata”. Dunque uno spettro si aggira sulle tavole dell’occidente, lo spettro dell’insalata... C’è veramente da rabbrividire.

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Il sale fa male e loro esaltano l’insalata, piena di sale fin dal nome. Loro ossia i rivoluzionari dell’insalata che poi sono, non a caso, rivoluzionarie. La prima è Bee Wilson, che si chiamerebbe Beatrice se non avesse tritato l’anagrafe com’è solita fare coi cavoletti di Bruxelles. E’ una gastronoma inglese il cui grosso articolo apparso sul Wall Street Journal è da considerarsi il manifesto del movimento e infatti il titolo squilla forte: “The Great American Salad Revolution”. L’incipit mi ha ricordato quello celeberrimo di Karl Marx: “All’inizio del 2021, il piatto che mi ritrovo a desiderare di più è l’insalata”. Dunque uno spettro si aggira sulle tavole dell’occidente, lo spettro dell’insalata... C’è veramente da rabbrividire.

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La seconda rivoluzionaria è Nigella Lawson, già dea dei fornelli e ora forse dell’orto, che nel suo ultimo libro parla di insalata con accenti lirici, come di un cibo (ma l’insalata è un cibo?) capace di sollevare lo spirito e aggiungere poesia alla prosa della vita quotidiana.

 

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La terza è l’illustratrice dell’articolo Sonia Pulido, il cui lavoro all’apparenza complementare è invece essenziale per capire il terreno di coltura dell’insalatismo: protagonista dell’illustrazione è una donna, e allora non mi venite a dire che l’insalata non è cosa da femmine; la donna è nera, e allora non mi venite a dire che carote e rape non sono armi ideologiche, se maneggiate da signore (tutte pallide, notare) allineate al razzismo antibianco che evidentemente non è un’esclusiva di New Yorker e New York Times.
     

Il problema è che mettere al centro della tavola l’insalata significa mettere ai margini l’uomo, il vero uomo per il quale il radicchio deve fare da contorno. Al massimo l’ingrediente, e non il principale. Anch’io recentemente ho mangiato un’insalata: un'insalata di cappone. Preparata per riciclare il volatile che insieme al manzo mi ha fornito il grassissimo brodo degli anolini natalizi. Erano presenti cicorino e cipollotto, ma con un ruolo subordinato. La prossima volta cercherò di procurarmi un fagiano: sia perché il brodo di fagiano è squisito, sia perché un’insalata di fagiano non l’ho mai mangiata, sia per dare un dispiacere a Flavio Insinna, l’uomo perfetto per la donna insalatara ossia l’uomo che rinnega la cultura virile della caccia.

  

Un’altra esponente del gineceo verdurista, Emily Nunn, si è spinta a inserire l’insalata nella tipologia “comfort food”. Grazie a Dio qualche differenza tra i sessi resiste: a me prende lo sconforto se per cena propongono un’insalata... Non sono una capra, sono un uomo. Un uomo italiano. A cui la ricetta preferita dalla signora Wilson disgusta in modo particolare: “Cavoletti di Bruxelles crudi, tritati finemente e mescolati con un condimento di ispirazione vietnamita con aglio, foglie di menta, peperoncini, salsa di pesce, aceto di riso, succo di lime e anacardi”. Ispirazione vietnamita? Aceto di riso? Succo di lime? Anacardi? A casa mia gli anacardi non entrano, qui si comprano pinoli, e i condimenti sono aceto di vino e succo di limone. Che comunque sulle salsicce non servono.
 

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