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Langone è il più formidabile antidoto contro il male da carta dei vini

Giuseppe De Filippi

Conversazione con l'autore su “Dei miei vini estremi” (Marsilio): “Non ne posso più degli annusatori che hanno trasformato il vino in un’altra cosa, non lo bevono, lo annusano"

Segue conversazione tra due persone che sono d’accordo tra loro sul tema specifico: il vino, cosa pensarne, quanto se ne possa sapere, cosa farne. A movimentare un po’ le cose, altrimenti la concordia sarebbe distruttiva per chi legge, c’è uno scarto di conoscenze. Uno scarto rilevante, ma pur sempre inserito nella parte piccolissima cui è dato accesso al sapere umano nella gigantesca universalità e varietà della materia enologica: perché secondo Camillo Langone (e immaginate quanto possa essere schierato con lui l’interlocutore) di vino è impossibile essere esperti (parola semi-orrenda) o comunque saperne abbastanza. Se ne può sapere poco ovvero qualcosa, che è il suo caso, o pochissimo ovvero qualche accenno, che è la situazione dell’interlocutore in questa conversazione attorno anche a “Dei miei vini estremi” (Marsilio, 2019).

 

Il titolo del racconto filosofico/vinicolo di Langone fa il suo mestiere perché entra nel merito. Per Langone i vini sono qualcosa di personale, quindi sono i suoi vini, perché il gusto (sommo appannaggio soggettivo) comanda, i vini poi sono al plurale, perché sono tanti e diversi e così vanno prima di tutto bevuti, poi volendo anche scoperti, imparati, raccontati, e poi hanno senso solo se estremi, quindi eccentrici, lontani dalla scaffalizzazione, diciamo anche solo caratterizzati che è sufficiente (per non cadere nella retorica dell’anti-globalizzazione). La telefonata lo sorprende mentre stava stappando un Aglianico del Vulture, pronto a berlo e a fare qualche foto per uso giornalistico. E subito si va al tema dell’inconoscibilità. “Sono certo che nessuno capisca niente di vino, o, peggio, che qualcuno capisca qualcosina, però male”. Il lato enologicamente incolto della conversazione si ringalluzzisce: “E’ un sapere che svia, è smania di catalogare, è inganno?”. “Mah, il punto è che la materia è sfuggente. Io sono contento di essere unico, di non appartenere a una scuola, di non avere maestri”, “ma di avere buone letture e di conoscere, prudentemente, anche le cattive letture, se non altro per tenersene alla larga”, “beh, certo Veronelli lo ho letto e amato, come Soldati o Monelli, ma anche questi, grandi e intelligenti e certamente dotati di gusto, raccontano un mondo scomparso, perché il vino è tradizione e innovazione assieme, senza poter tenere una sola delle due staccata dall’altra, ed è vivo (almeno quello che interessa a me), perciò cambia ogni anno, anche durante l’anno”.

 

Ma, si diceva, stiamo parlando di qualcosa che si dovrebbe bere, non farne un feticcio. Langone non si frena: “Non ne posso più degli annusatori che hanno trasformato il vino in un’altra cosa, non lo bevono, lo annusano, così hanno celebrato roba che non si riesce a bere, hanno messo sul piedistallo vini faticosi come un Sassicaia che mi ha rovinato un brasato, o come l’Amarone, un vino alcolicamente e produttivamente folle”. Insomma, Langone è il più formidabile antidoto contro il male da carta dei vini, è il nostro scudiero pronto a sostenerci nella tenzone contro l’enologo tuttologo, contro il sommelier aggressivo, contro il cameriere arraffazzone.

 

In “Dei miei vini estremi” smonta, in poche parole, il criterio del prezzo come bussola della qualità e della reputazione personale dell’ordinante e se la prende con l’atmosfera plumbea che è stata creata attorno a un prodotto di tutt’altra natura. “I ristoranti Michelin sanno di morte, i vini che propongono sono defunti, le liste sembrano una sfilza di necrologi, se nel mondo ci fossero solo Cabernet, Chardonnay, Sauvignon e Merlot allora berrei Nocino”, “e dove bisogna andare a cercare un po’ di vita tra le viti, allora?”, “mi incuriosiscono solo produttori che curano vitigni specifici, tradizionali, con carattere, ovvero non portati da terre lontane per uniformare il gusto, molti di loro sono ritratti e raccontati in questo libro”. Per un attimo si è sfiorati dal timore di precipitare nel relativismo o nel particolarismo. Ma poi ci si ricorda che la chiave dell’esperienza di Langone con il vino è il Lambrusco. “Quel bel frizzante emiliano ti porta per mano, ti fa capire tante cose, ormai è un fratello maggiore, simpatico ma fondamentalmente anche saggio”. “Io affermo che non c’è vino migliore del Lambrusco, anzi degli innumerevoli e multiformi Lambruschi che si producono in tanti modi diversi in tante province diverse da tante varietà di Lambrusco diverse. Mi rendo conto che questo possa suonare leggermente soggettivo. Ma che i Lambruschi siano i vitigni più autoctoni d’Italia lo dicono le analisi del dna che sono quanto di più oggettivo”. Che poi si è d’accordo, in questa specie di recensione, anche sul favore per il frizzante, con la proposta di qualche ricordo di rossi spumosi meridionali, “che ne pensi del Lettere, per cercare un parente del tuo amato Lambrusco?”. “Sì, è il gemello del Gragnano citato da Totò in ‘Miseria e nobiltà’, ed è un vino di puro godimento, frutto di quella Campania Felix che dai Campi Flegrei arriva fino alla Penisola Sorrentina, comprendendo Ischia e Vesuvio”. “E quindi siamo dalle parti dei meravigliosi rossi freddi, è divertente il confronto tra te e Gaja sul tema”, “Gaja è un grande e dunque un personaggio con cui vale la pena di confrontarsi anche partendo da posizioni molto diverse. Ci vorrebbe un Gaja anche nel mondo del Lambrusco, del Gragnano, del Terrano, della Fortana…”. “Quanto si arrabbiano i vignaioli celebrati e da te smontati?”. “Ma guarda che io i panni dello stroncatore li ho dismessi, adesso voglio fare il laudatore e infatti il libro è pieno di elogi. E se ogni tanto ancora mi scappa una critica non danneggio nessuno: i vinoni toscanoni costosoni, paradigma del vino che detesto, sono fatti pensando al mercato americano, al mercato coreano, e laggiù non ho lettori”.

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