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Il Papa, stufo della Cei, ordina un Sinodo nazionale. Sarà uno spettacolo

Francesco aveva chiesto una svolta in occasione del Convegno nazionale di Firenze, nel 2015. Un discorso rimasto lettera morta

Matteo Matzuzzi

Per i vescovi non era una priorità, ora si vedrà. “Vi chiedo di essere costruttori dell’Italia, di mettervi al lavoro per una Italia migliore”, disse il Pontefice

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Il discorso tenuto sabato scorso da Papa Francesco in occasione dell’incontro promosso dall’Ufficio catechistico nazionale della Cei è destinato a entrare di diritto nella categoria degli atti principali del pontificato. Non tanto per i commenti poco ecumenici su quel “gruppo di vescovi che dopo il Vaticano I sono andati via per continuare la vera dottrina che non era quella del Vaticano I e oggi ordinano donne” – di sicuro gli interessati non la prenderanno bene –, bensì per la chiamata a raccolta della Chiesa italiana in tutte le sue componenti affinché si metta in moto e si dedichi animo e corpo a “un processo di Sinodo nazionale, comunità per comunità, diocesi per diocesi: anche questo processo sarà una catechesi”.

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Il discorso tenuto sabato scorso da Papa Francesco in occasione dell’incontro promosso dall’Ufficio catechistico nazionale della Cei è destinato a entrare di diritto nella categoria degli atti principali del pontificato. Non tanto per i commenti poco ecumenici su quel “gruppo di vescovi che dopo il Vaticano I sono andati via per continuare la vera dottrina che non era quella del Vaticano I e oggi ordinano donne” – di sicuro gli interessati non la prenderanno bene –, bensì per la chiamata a raccolta della Chiesa italiana in tutte le sue componenti affinché si metta in moto e si dedichi animo e corpo a “un processo di Sinodo nazionale, comunità per comunità, diocesi per diocesi: anche questo processo sarà una catechesi”.

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La Chiesa italiana, ha detto il Pontefice, “deve tornare al Convegno di Firenze” del 2015 perché lì “c’è proprio l’intuizione della strada da fare in questo Sinodo” e “adesso, riprenderlo: è il momento”. Il Papa si è accorto, e non da ieri ma da ben cinque anni, che la chiesa italiana è ferma, scossa dal riorientamento delle priorità politiche, sociali e – più largamente – culturali indotto dall’elezione del vescovo preso quasi alla fine del mondo. Un aggiornamento che proprio a Firenze prevedeva l’archiviazione  della stagione iniziata a Loreto nel 1985 e che ha segnato tre decenni di storia ecclesiale italiana. Il Papa lo disse chiaramente quando sottolineò l’inutilità di arrovellarsi e perdere energie in “condotte e forme superate che neppure culturalmente hanno capacità di essere significative”. La Civiltà cattolica aveva colto per prima l’input di Francesco, tant’è che già due anni fa pose la questione del sinodo al centro del dibattito: “La Chiesa italiana saprà farsi interpellare dal mutamento in corso senza limitarsi ad attendere tempi migliori?”, domandava in un editoriale padre Antonio Spadaro.

 

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La reazione dei vescovi era stata tiepida,  consapevoli che un Sinodo per l’Italia – prospettiva antica e assai cara a padre Bartolomeo Sorge – avrebbe scoperchiato un vaso di Pandora con effetti destabilizzanti non facilmente valutabili. Pochi erano stati i presuli apertamente favorevoli alla prospettiva sinodale e tutti figli del “nuovo corso” bergogliano impresso alla Cei: dall’arcivescovo di Palermo mons. Corrado Lorefice – “è necessario che si mettano in atto tutte le forme e tutte le misure possibili per dare la parola alla chiesa, per far scegliere la chiesa, il popolo santo di Dio, fatto spesso da tante persone che non ne sanno nulla dei nostri dibattiti e delle nostre tensioni” – a quello di Modena Erio Castellucci, convinto della necessità di avviare un processo che porti a una chiesa “libera e aperta alle sfide del presente, mai in difensiva per timore di perdere qualcosa” – al vescovo di Rieti mons. Domenico Pompili. Dagli altri, silenzio. Anche perché i vertici, pur ritenendo “buona” l’idea di un Sinodo, l’avevano posticipata sine die, quasi non fosse la priorità.  Il programma il Papa l’ha indicato a Firenze, in un discorso presto archiviato e poco discusso. I concetti salienti – quelli da cui si dovrà partire ora – li ha ribaditi sabato: “Questo è il tempo per essere artigiani di comunità aperte che sanno valorizzare i talenti di ciascuno. E’ il tempo di comunità missionarie, libere e disinteressate, che non cerchino rilevanza e tornaconti, ma percorrano i sentieri della gente del nostro tempo, chinandosi su chi è al margine”. Con un appello che oggi suona quanto mai attuale: “Vi chiedo di essere costruttori dell’Italia, di mettervi al lavoro per una Italia migliore”. 

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