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La crociata americana

Il cattolico Joe Biden entra alla Casa Bianca e scoppia la guerra fra i vescovi. Da una parte i nostalgici delle culture war, dall’altra i promotori dell’ospedale da campo bergogliano

Matteo Matzuzzi

Lo schieramento pubblico e molto social dei presuli: da una parte i conservatori, dall’altra i liberal benedetti da Roma. In mezzo, il rischio di uno scisma

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E se alla fine il vero scisma nella Chiesa fosse quello americano? E’ una provocazione, certo: oltreoceano non si battono i pugni contro Roma né si indicono sinodi locali per cambiare dottrina e pastorale, portando sull’altare le donne perché maschi disponibili non ce ne sono più e dicendo basta con l’antiquata moda del celibato sacerdotale. Però qualcosa si muove, tra spaccature profondissime all’interno della Conferenza episcopale degli Stati Uniti – che un peso ce l’ha all’interno della Chiesa, ché qui il principio dell’uno vale uno non conta, Deo gratias – emerse nelle ultime due settimane segnate dall’assalto al Campidoglio e dall’insediamento del nuovo presidente, il cattolico Joe Biden. Tutto sembrava apparecchiato per suggellare il patto di ferro tra Roma e Washington, tra Santa Marta e la Casa Bianca. Il successore di Donald Trump aveva pure messo la foto di lui con il Papa dietro alla scrivania nello Studio Ovale, quasi a rimarcare l’importanza del legame con il Tevere. La grancassa mediatica aveva fatto il resto, con gli alert sulle messe mattutine che avevano visto Biden in prima fila, le visite al cimitero, le sottolineature dei riferimenti a sant’Agostino che in brodo di giuggiole avevano mandato osservatori al di qua e al di là dell’oceano. La sottolineatura marcata dell’appartenenza religiosa del nuovo presidente, fatta proprio dalle categorie che fino al giorno prima commentavano severe, Vangelo alla mano, che la fede non va esibita e che il Padre si prega nel segreto della propria camera, con la porta ben chiusa. Invece la cattolicità è diventata un tratto caratterizzante dell’uomo nuovo al comando, attributo adatto allo stigma dell’unificatore per necessità di un paese lacerato che ha visto i cattolici – seppure di poco – preferirgli uno come Trump, che la Bibbia la mostrava al contrario e che contava i dollari prima di decidere quali e quanti infilare nella cassetta delle offerte. Ma la citazione del De civitate Dei non ha convinto per niente il vertice della Conferenza episcopale americana, che subito dopo l’insediamento e le marcette che accompagnano il presidente alla Casa Bianca, ha emesso un comunicato inusuale in cui le carte sul tavolo vengono scoperte senza troppi cedimenti alla cortesia istituzionale e al linguaggio diplomaticamente e politicamente corretto. Dopo una lunga premessa su quanto sarà bello lavorare con il presidente Biden  “primo presidente in sessant’anni a professare la fede cattolica” anche perché “in un periodo di secolarismo crescente e aggressivo nella cultura americana sarà rinfrancante impegnarsi con un presidente che comprende chiaramente in modo profondo e personale l’importanza della fede e delle istituzioni religiose”, si arriva al punto: “Devo sottolineare – scrive il presidente dei vescovi, mons. José Horacio Gómez – che il nostro nuovo presidente si è impegnato a perseguire determinate politiche che promuoveranno i mali morali e minaccerebbero la vita e la dignità umana, soprattutto sull’aborto, la contraccezione, il matrimonio e il gender”. In pericolo, insomma, “c’è la libertà della Chiesa e la libertà dei credenti di vivere secondo la loro coscienza”. Se non fosse chiaro, “per i vescovi della nazione la continua ingiustizia dell’aborto rimane la priorità preminente”. Tutto il resto, dunque, viene dopo. Un bel problema. 

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E se alla fine il vero scisma nella Chiesa fosse quello americano? E’ una provocazione, certo: oltreoceano non si battono i pugni contro Roma né si indicono sinodi locali per cambiare dottrina e pastorale, portando sull’altare le donne perché maschi disponibili non ce ne sono più e dicendo basta con l’antiquata moda del celibato sacerdotale. Però qualcosa si muove, tra spaccature profondissime all’interno della Conferenza episcopale degli Stati Uniti – che un peso ce l’ha all’interno della Chiesa, ché qui il principio dell’uno vale uno non conta, Deo gratias – emerse nelle ultime due settimane segnate dall’assalto al Campidoglio e dall’insediamento del nuovo presidente, il cattolico Joe Biden. Tutto sembrava apparecchiato per suggellare il patto di ferro tra Roma e Washington, tra Santa Marta e la Casa Bianca. Il successore di Donald Trump aveva pure messo la foto di lui con il Papa dietro alla scrivania nello Studio Ovale, quasi a rimarcare l’importanza del legame con il Tevere. La grancassa mediatica aveva fatto il resto, con gli alert sulle messe mattutine che avevano visto Biden in prima fila, le visite al cimitero, le sottolineature dei riferimenti a sant’Agostino che in brodo di giuggiole avevano mandato osservatori al di qua e al di là dell’oceano. La sottolineatura marcata dell’appartenenza religiosa del nuovo presidente, fatta proprio dalle categorie che fino al giorno prima commentavano severe, Vangelo alla mano, che la fede non va esibita e che il Padre si prega nel segreto della propria camera, con la porta ben chiusa. Invece la cattolicità è diventata un tratto caratterizzante dell’uomo nuovo al comando, attributo adatto allo stigma dell’unificatore per necessità di un paese lacerato che ha visto i cattolici – seppure di poco – preferirgli uno come Trump, che la Bibbia la mostrava al contrario e che contava i dollari prima di decidere quali e quanti infilare nella cassetta delle offerte. Ma la citazione del De civitate Dei non ha convinto per niente il vertice della Conferenza episcopale americana, che subito dopo l’insediamento e le marcette che accompagnano il presidente alla Casa Bianca, ha emesso un comunicato inusuale in cui le carte sul tavolo vengono scoperte senza troppi cedimenti alla cortesia istituzionale e al linguaggio diplomaticamente e politicamente corretto. Dopo una lunga premessa su quanto sarà bello lavorare con il presidente Biden  “primo presidente in sessant’anni a professare la fede cattolica” anche perché “in un periodo di secolarismo crescente e aggressivo nella cultura americana sarà rinfrancante impegnarsi con un presidente che comprende chiaramente in modo profondo e personale l’importanza della fede e delle istituzioni religiose”, si arriva al punto: “Devo sottolineare – scrive il presidente dei vescovi, mons. José Horacio Gómez – che il nostro nuovo presidente si è impegnato a perseguire determinate politiche che promuoveranno i mali morali e minaccerebbero la vita e la dignità umana, soprattutto sull’aborto, la contraccezione, il matrimonio e il gender”. In pericolo, insomma, “c’è la libertà della Chiesa e la libertà dei credenti di vivere secondo la loro coscienza”. Se non fosse chiaro, “per i vescovi della nazione la continua ingiustizia dell’aborto rimane la priorità preminente”. Tutto il resto, dunque, viene dopo. Un bel problema. 

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Si piantano paletti e confini, si torna all’arroccamento a difesa dei valori non negoziabili. E’ il muro alzato  – perché anche di questo si tratta –contro il Papa, che non solo il giorno del giuramento di Biden aveva spedito un più che cordiale telegramma in cui si diceva quasi entusiasta di lavorare con il nuovo inquilino della Casa Bianca evitando ogni accenno ai temi divisivi, ma che soprattutto cinque anni e mezzo fa a Washington tentò di consegnare agli archivi la stagione delle cultural war e del conservatorismo muscolare americano. “La croce non è un vessillo” da impugnare in “lotte mondane”, sottolineò davanti ai vescovi americani riuniti nella cattedrale di san Matteo. Un comunicato, quello firmato da mons. Gómez – che è anche arcivescovo di Los Angeles, la più grande diocesi americana – che ha diviso la conferenza episcopale. Il cardinale Blase Cupich, arcivescovo di Chicago e capofila dei promotori della linea di Francesco negli Stati Uniti, insignito della porpora in virtù del suo ruolo di antagonista dello schieramento ultraconservatore, ha reagito subito con un lapidario tweet in cui definisce “sconsiderato” il documento reso noto dai vertici dell’episcopato americano. Non solo di questo si è lamentato Cupich, pronto a ricordare alla platea di follower che non ci sono precedenti per un’azione del genere e che molti vescovi sono rimasti “sorpresi” dalla mossa di Gómez, visto che la dichiarazione è stata da quest’ultimo spedita ai confratelli solo “poche ore prima” senza previa consultazione interna. Quindi, scrive l’arcivescovo di Chicago,  “non vedo l’ora di contribuire a tutti gli sforzi” utili affinché “possiamo costruire l’unità della Chiesa e intraprendere insieme l’opera di guarigione della nostra nazione in questo momento di crisi”. 

 

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Mons. Cupich ha dunque portato in superficie il trauma che vive la Chiesa americana, dilaniata tra i nostalgici dell’èra che fu e gli adepti del nuovo corso, politico ed ecclesiale.  Una spaccatura profondissima che l’America ha già vissuto ai tempi di un’altra campagna elettorale, quella che nel 2004 oppose George W. Bush al democratico (e cattolico) John Kerry. Vescovi e cardinali che si rifiutavano di dare la comunione agli esponenti liberal dichiaratamente pro aborto, con il placet della Congregazione per la Dottrina della fede allora guidata da Joseph Ratzinger e l’opposizione dell’allora capo dell’episcopato statunitense, mons. Wilton Gregory oggi divenuto cardinale arcivescovo di Washington. Quella dell’arcivescovo Cupich non è stata una reazione istintiva, dal momento che aveva tentato di bloccare la pubblicazione della Dichiarazione firmata da Gómez con il coinvolgimento del nunzio mons. Christophe Pierre e della Segreteria di stato. Quest’ultima, davanti al rifiuto del presidente della Conferenza episcopale americana di ritirare il documento, ha chiesto e ottenuto quantomeno una dilazione rispetto alla tempistica della pubblicazione. Si è chiesto George Weigel su First Things se la “Santa Sede avrebbe tentato di bloccare o ritardare la pubblicazione di una dichiarazione del presidente della Conferenza episcopale tedesca (alcune delle cui ultime dichiarazioni pubbliche non sembrano avere familiarità con questioni risolte di dottrina e prassi cattolica). Perché – sono parole sempre di Weigel –  il nuovo ultramontanismo si applica solo agli Stati Uniti?”. Tra l’altro, mons. Gómez era presidente della Conferenza episcopale americana anche a novembre, quando disse le stesse cose, per cui la sorpresa non è granché motivata. 

 

Pensare che sia una sacaramuccia tra prelati, però, significherebbe banalizzare una situazione che banale non lo è per nulla. Dietro all’alterco tra Gómez e Cupich, infatti, si sono schierate subito le truppe, assai rumorose e determinate a combattere la battaglia, con la convinzione unanime che essa sia buona e giusta. Se il cardinale arcivescovo di Newark, Joseph Tobin, si è messo sulla scia di Cupich,  il vicepresidente della Conferenza episcopale, l’arcivescovo di Detroit mons. Allen Vigneron, ha aspettato che la buriana s’attenuasse per tornare alla carica e dire nell’omelia pronunciata il 23 gennaio in occasione della messa per la protezione dei bambini non nati che “per i vescovi della nazione, la continua ingiustizia dell’aborto rimane la priorità preminente. Preminente non significa ‘solo’. Siamo preoccupati per le numerose minacce alla vita e alla dignità umana nella nostra società. Ma, come insegna Papa Francesco, non possiamo tacere quando quasi un milione di vite non nate vengono messe da parte anno dopo anno a causa dell’aborto”. 
Intanto, Biden e Kamala Harris diffondevano un comunicato in cui assicuravano di essere impegnati “a codificare Roe v Wade e a nominare giudici che rispettino precedenti fondamentali come la sentenza Roe”. Non proprio un ramoscello d’ulivo teso all’ala più conservatrice della Chiesa cattolica americana (ma anche, e soprattutto, agli evangelici), considerato che Roe v Wade è la storica sentenza che all’inizio degli anni Settanta legalizzò l’aborto negli Stati Uniti. Non a caso, il vescovo di Kansas City, Joseph Naumann, ha scritto che “è profondamente preoccupante e tragico che un presidente elogi e si impegni a codificare una sentenza della Corte Suprema che nega ai bambini non nati il loro diritto umano e civile più fondamentale, il diritto alla vita, sotto il travestimento eufemistico di servizio sanitario”. 

 

Quella tra la Conferenza episcopale americana e Roma è una tensione reale, ha scritto il vaticanista John Allen: “Questo non è un caso in cui un attore recita il ruolo di poliziotto buono e l’altro di poliziotto cattivo”. Non c’è, qui, “una strategia coordinata che permetta al Papa di agitare una carota mentre i vescovi impugnano il bastone. Sia con Obama sia con Biden la tensione è vera, e nessuna delle due parti parte particolarmente soddisfatta dell’approccio dell’altra”. Lo schema, insomma, ricorda molto quello sperimentato nel 2009, quando Barack Obama entrò alla Casa Bianca. Con una differenza fondamentale che Allen rileva: “Gli otto anni di Papa Francesco. Quando Obama entrò in carica, i vescovi statunitensi erano abbastanza compatti nel concentrarsi sulla questione dell’aborto, mentre oggi ci sono abbastanza ‘vescovi di Francesco’ capaci di offrire un contrappeso vocale più vicino alla linea del Vaticano”. Mons. Cupich, poi, ha anche parlato di “fallimenti istituzionali interni”, in riferimento al comunicato pubblicato dalla presidenza della Conferenza episcopale guidata da mons. Gómez. “Sembra lanciare un avvertimento, non è disposto a lasciar perdere. Oggi abbiamo tre gruppi in disaccordo all’interno della struttura di potere cattolica: il Vaticano, la leadership episcopale e un gruppo sempre più influente di vescovi che dissentono da quella leadership”, aggiunge ancora il vaticanista americano. Chiarendo però che non si tratta “in primo luogo di una linea di frattura tra Roma e i vescovi o tra Gómez e Cupich. E’ una linea di frattura che attraversa i cuori e le menti degli stessi cattolici americani”. 

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Una frattura che Biden, che è un cattolico liberal lontano anni luce dalle istanze dei conservative, difficilmente potrà ricomporre. La sua idea di cattolicesimo è quella che incarnò un grande cardinale americano, Joseph Bernardin, il liberal di Chicago che segnò una stagione di vita ecclesiale e culturale negli Stati Uniti. Il modello è quello oggi in voga, riproposto a Roma da Francesco con la metafora dell’ospedale da campo e fatto proprio dalla nouvelle vague dei Cupich e dei Tobin. Bernardin lo spiegò già nel 1983, in una conferenza alla Fordham University di New York: “Sono persuaso che la posizione a favore della vita della Chiesa debba essere sviluppata nella forma di una comprensiva e coerente etica della vita (…). Quelli che difendono il diritto alla vita dei più deboli tra noi devono essere altrettanto visibilmente impegnati nel supporto della qualità della vita dei più fragili tra noi: l’anziano e il giovane, l’affamato e il senza tetto, l’immigrante senza permesso e il disoccupato. (…) Coerenza complessiva significa che non si può essere ambivalenti in materia. Non possiamo insistere su una società compassionevole e su una vigorosa politica pubblica che proteggano la vita non nata e affermare, allo stesso tempo, che questa compassione e i programmi pubblici a favore dei bisognosi erodono la fibra morale della società o ricadono al di fuori del compito proprio della responsabilità di governo”. Il Papa la pensa così e i vescovi da lui nominati per ribaltare la conferenza episcopale americana pure. Non è un caso che presuli come Gomez e Chaput, emerito di Philadelphia, siano stati esclusi dal collegio cardinalizio, mentre la berretta sia stata data appena possibile a Cupich, Tobin e Gregory. Si tratta di una scelta di campo precisa già intuibile nel citato discorso che Francesco tenne a Washington cinque anni e mezzo fa. Serviranno anni per vedere se la rivoluzione attecchirà – a Giovanni Paolo II servì più di un decennio per spostare a destra l’asse americano –e il risultato non è affatto scontato: in un paese a pezzi in cui il presidente che – nella vulgata mediatica – dovrebbe unire si fa immortalare dai fotografi mentre firma ordini esecutivi finalizzati a cancellare quel che ha fatto il predecessore e fa pubblicare comunicati pro aborto, è arduo pensare che basterà una foto con il Papa per calmare le acque. Il problema è assai più profondo, ed è per questo che limitarlo al battagliare tra vescovi è riduttivo e porta fuori strada. Scriveva sul Foglio, la scorsa estate, il professor Joshua Mitchell: “Nell’America di oggi le confessioni protestanti un tempo maggioritarie sono a tutti gli effetti crollate – uno sviluppo cominciato in modo serio quando i soldati tornarono dalla Seconda guerra mondiale con la loro fede scossa, se non distrutta. Dopo la fine della guerra del Vietnam, gli americani, demoralizzati, cominciarono ad abbandonare le loro chiese in grandi numeri. Oggi la pratica religiosa declina di anno in anno e la maggioranza degli americani dichiara di non aderire ad alcuna confessione. Nemmeno la Chiesa cattolica se la passa bene. Per la delusione dei conservatori, si è arresa alla cultura americana sul controllo delle nascite e sull’aborto. Cosa ancora peggiore, la sua dottrina si è ridotta alla ‘giustizia sociale’, al punto che alcuni conservatori si sono chiesti se nei suoi attuali insegnamenti non ci siano più Marx e Nietzsche che i venerabili Padri della Chiesa”. Non basterà sant’Agostino per rimettere insieme i cocci. 

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