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Il senso della fratellanza

Michele Faioli*

L’enciclica “Fratelli tutti” ha una dimensione giuslavoristica e neppure troppo nascosta

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L’enciclica Fratelli tutti ha anche una dimensione giuslavoristica? Forse sì. Lo scopo di questo mio breve scritto consiste proprio nel mettere in rilievo tale dimensione. Il modo più opportuno per leggere questa enciclica resta ovviamente l’immaginare come Dio vede il mondo: il richiamo alla parabola del buon samaritano nei primi paragrafi dell’enciclica ha proprio questo significato (“ogni giorno ci troviamo davanti alla scelta di essere buoni samaritani oppure viandanti indifferenti che passano a distanza” – paragrafo 69). Ma ritorniamo alla domanda da cui muovo: nell’enciclica Fratelli tutti c’è anche una dimensione giuslavoristica? Ci sono alcuni paragrafi che segnalano questa dimensione. Tra questi, si possono studiare i paragrafi 22, 110, 162 e 186. Nel paragrafo 22, ragionando di logica di scarto, l’enciclica evidenzia che nei sistemi economici c’è una certa ossessione di ridurre i costi del lavoro.

 

Questa ossessione crea scarto e lo scarto è la persona che è vittima di questa ossessione. Per noi giuslavoristi ossessione della riduzione del costo del lavoro significa anche lavoro povero. Che cos’è il lavoro povero? E’ il lavoro mal retribuito perché non vengono rispettati i minimi contrattuali o il salario minimo legale. Ci sono padri e madri di famiglia che pur lavorando non portano a casa un salario che permette una vita degna e una prospettiva ai propri figli. Il paragrafo 110 sottolinea che una sola persona scartata non rende fraterno il sistema economico sociale. Il suggerimento che si legge in queste pagine consiste nel lottare contro le cause strutturali dello scarto sociale, tra cui vi è la mancanza di lavoro, oltre alla povertà, alla disuguaglianza, alla mancanza della terra e della casa, alla negazione dei diritti sociali (paragrafo 116). Nel paragrafo 162 si definisce il lavoro come l’obiettivo vero che deve consentire una vita degna alla persona. Non c’è sussidio che tenga. Qui potremmo anche vedere il collegamento con la nostra Costituzione (artt. 1, 3, 4, 35 e 36).

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Il lavoro è considerato un “bene del popolo” perché esso è un bene reale rispetto a cui bisogna risolvere i problemi: “Il lavoro è una dimensione irrinunciabile della vita sociale, perché non solo è un modo di guadagnarsi il pane, ma anche un mezzo per la crescita personale, per stabilire relazioni sane, per esprimere sé stessi, per condividere doni, per sentirsi corresponsabili nel miglioramento del mondo e, in definitiva, per vivere come popolo”. Il paragrafo 186 imputa la responsabilità della realizzazione delle politiche di promozione del lavoro a chi gestisce la cosa pubblica: alla politica si chiede di introdurre tutte quelle misure che possono attivare la ricollocazione di chi è disoccupato nel mercato del lavoro. Questi quattro paragrafi dell’enciclica confermano la dimensione che qui si definisce “giuslavoristica” perché spostano il problema di Dio da un ambito ideale a un ambito reale, fatto di relazioni di giustizia e misericordia con persone concrete in contesti concreti. C’è in essi un collegamento possibile tra tale dimensione e il concetto di affratellamento. Del resto per incidere sulla realtà non bastano solo buone intenzioni, ma servono tecnica e scienza (“quando è in gioco il bene degli altri, non bastano le buone intenzioni, ma si tratta di ottenere effettivamente ciò di cui essi e le loro nazioni hanno bisogno per realizzarsi” – paragrafo 185).

 

Il diritto del lavoro, in questa prospettiva, è più che una buona intenzione. E’ uno degli strumenti scientifici che può orientare i migliori percorsi volti a raggiungere il risultato sociale auspicato. La dimensione giuslavoristica dell’enciclica ha la propria radice nella nozione di affratellamento. La domanda centrale dell’enciclica non è “chi è mio fratello?”, ma – in modo più corretto – “di chi io mi faccio fratello?” (si v. il paragrafo 80). Tale domanda si traduce con il verbo affratellarsi. La decisione di includere o escludere chi è più vulnerabile (anche socialmente) è il criterio ultimo per osservare, giudicare e poi agire nella vita di tutti i giorni come un buon samaritano nonché per valutare ogni progetto economico, politico, sociale e religioso più ampio, in cui, direttamente o indirettamente, siamo coinvolti (si v. il paragrafo 69). Ma cosa è la fratellanza? Nell’enciclica si intende per fratellanza un processo dinamico, libero, non facile, che richiede tempo, e, per alcuni versi, salva anche il tempo che viviamo. E’ fratellanza ciò che media tra situazioni normalmente confliggenti.

 

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E’ fratellanza ciò che fa crescere talenti, iniziative, progetti, individuali e collettivi (paragrafo 162). Di qui si può osservare anche il collegamento tra fratellanza e amicizia sociale: la fratellanza crea l’amicizia sociale perché mediante essa tutti i fratelli, esercitando eguali diritti e doveri, godono della medesima giustizia, anche sociale. Alla domanda “di chi mi faccio fratello?” bisogna rispondere ogni giorno secondo un processo dinamico e libero, sapendo che poi proprio sull’affratellamento noi un giorno saremo giudicati. Papa Francesco, in altre occasioni, aveva già sottolineato che il farsi fratello sarà il protocollo con cui un giorno saremo giudicati. Viene in mente la domanda che si pose Havel, intellettuale cecoslovacco, politico, europeista, il quale un certo punto della sua vita si chiese perché teneva tanto al giudizio finale. La risposta era molto centrata sulla fratellanza: “Perché per tutta la vita ho pensato che tutto ciò che accade non può essere cancellato e resta per sempre. 

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*Michele Faioli, Università Cattolica del Sacro Cuore

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