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La fabbrica dei vescovi

Matteo Matzuzzi

Altro che curia, diaconesse, donne consigliere e preti sposati. Papa Francesco sta cambiando la chiesa rivoluzionando le diocesi di mezzo mondo. Un turn over che lascerà tracce per decenni

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Preti sposati, diaconesse, suore fuori dalla clausura. S’è sentito di tutto in questi sette anni e mezzo di pontificato bergogliano, tra rivoluzioni profetizzate e date per imminenti, con cardinali che davanti a microfoni e taccuini annunciavano radiosi l’arrivo della primavera che avrebbe portato folate d’aria fresca nei corridoi dei palazzi vaticani. Mentre gli osservatori esperti di cose di chiesa, estasiati dalla nomina di donne nel Consiglio dell’Economia – quasi fosse il segno di qualcosa di nuovo, epocale e sublime – vestivano i panni degli aruspici, cercando di indovinare dove la Barca stesse andando, tra sinodi amazzonici e riforme della curia che non si vedono, sfuggiva che Francesco una rivoluzione enorme la sta compiendo davvero. E’ per palati fini, non è l’evento traumatico che tutto cambia d’improvviso, non offrirà su vassoi d’argento titoli per le aperture di giornali e telegiornali. Ma è una rivoluzione profonda che sta mettendo radici, le cui conseguenze dureranno per anni. E’ il grande ricambio dei vescovi nelle diocesi del mondo, ancora più evidente in quelle italiane. E’ su questo terreno che la mano del Papa si vede con più evidenza. E’ qui che il cambiamento si sta concretizzando senza incontrare le lamentazioni e le trenodie che su altri dossier, un giorno sì e l’altro pure, si levano sul pontificato. Tra ex nunzi che da località sconosciute denunciano il Pontefice per eresia fino a chiedere la cancellazione del Vaticano II e siti internet che diffondono appelli, petizioni e raccolte di firme che ottengono sempre, inesorabilmente, l’effetto contrario rispetto a quello prefissato.

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Preti sposati, diaconesse, suore fuori dalla clausura. S’è sentito di tutto in questi sette anni e mezzo di pontificato bergogliano, tra rivoluzioni profetizzate e date per imminenti, con cardinali che davanti a microfoni e taccuini annunciavano radiosi l’arrivo della primavera che avrebbe portato folate d’aria fresca nei corridoi dei palazzi vaticani. Mentre gli osservatori esperti di cose di chiesa, estasiati dalla nomina di donne nel Consiglio dell’Economia – quasi fosse il segno di qualcosa di nuovo, epocale e sublime – vestivano i panni degli aruspici, cercando di indovinare dove la Barca stesse andando, tra sinodi amazzonici e riforme della curia che non si vedono, sfuggiva che Francesco una rivoluzione enorme la sta compiendo davvero. E’ per palati fini, non è l’evento traumatico che tutto cambia d’improvviso, non offrirà su vassoi d’argento titoli per le aperture di giornali e telegiornali. Ma è una rivoluzione profonda che sta mettendo radici, le cui conseguenze dureranno per anni. E’ il grande ricambio dei vescovi nelle diocesi del mondo, ancora più evidente in quelle italiane. E’ su questo terreno che la mano del Papa si vede con più evidenza. E’ qui che il cambiamento si sta concretizzando senza incontrare le lamentazioni e le trenodie che su altri dossier, un giorno sì e l’altro pure, si levano sul pontificato. Tra ex nunzi che da località sconosciute denunciano il Pontefice per eresia fino a chiedere la cancellazione del Vaticano II e siti internet che diffondono appelli, petizioni e raccolte di firme che ottengono sempre, inesorabilmente, l’effetto contrario rispetto a quello prefissato.

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E’ qui che il cambiamento si sta concretizzando senza incontrare le lamentazioni che su altri dossier si levano ogni giorno sul pontificato


     

Non procede a tentoni, Francesco, stravolgendo la mappa dei vescovi, cioè di coloro che sono chiamati ad agire sul territorio impostando la rotta fissata nel 2013, i cui riferimenti chiari sono elencati l’uno dopo l’altro nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium. Sono loro, i vescovi, che devono formare i nuovi preti da mandare nelle parrocchie. Meglio ancora se entusiasti e senza avere quella “faccia storta” tante volte da Francesco deprecata. Sacerdoti “insoddisfatti” e “ce ne sono e fanno tanto male quando vivono una vita non piena; non trovano pace da una parte, dall’altra, sempre pensando a progetti e poi quando li hanno in mano dicono ‘no, non mi piace’”, disse in un’omelia a Santa Marta qualche anno fa. E’ il vescovo che deve sovrintendere a ciò, facendo sì che non vadano in giro “preti mondani”, “insoddisfatti, non sono felici, si lamentano e vivono tristi”.

   

Il profilo del presule caro a Bergoglio l’aveva sintetizzato bene, anni fa, il gesuita Diego Fares in un articolo apparso sulla Civiltà Cattolica. Proprio Fares, in un’intervista alla Radio Vaticana, raccontò un episodio che spiega parecchio: “Questo di essere pastori, di avere l’odore delle pecore e non essere principi né piloti (gestori), viene da quarant’anni, da quando eravamo novizi e studenti e lui era il nostro provinciale e dopo rettore. Mi ricordo di un compagno che, passeggiando per l’orto del nostro Collegio Massimo, dove avevamo maiali, mucche e pecore, ha visto che Bergoglio, il nostro rettore, stava aiutando una pecora a partorire. Sorpreso il mio compagno, gli ha offerto il suo aiuto. La pecora aveva rifiutato un agnellino dei tre che aveva partorito. Bergoglio ha riflettuto un attimo e improvvisamente ha preso quell’agnellino e glielo ha consegnato dicendogli: ‘Custodiscilo!’. ‘E come si fa’, ha detto questo? ‘Vai all’infermeria e riscalda un po’ di latte e daglielo con il biberon’. Per cinque mesi, questo studente ha avuto l’agnello in camera sua, che propriamente puzzava di odore di pecora… L’agnello lo seguiva per tutta la casa, fino in chiesa e nelle aule. Bergoglio gli ha detto: ‘Ti ho provato. Tu hai imparato questo: se tu la custodisci, la pecora ti segue. Fa’ cosi’. Sintetizzando, il Papa vuole “pastori che non solo non pretendono di vestirsi con la lana delle pecore, ma che sono ‘appassionati’ a servirle”.

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Si scelgono sempre di più giovani parroci, anche per combattere il carrierismo. Ma è giusto non promuovere un vescovo già esperto?


       

Francesco la rivoluzione la attua scegliendo vescovi nuovi, parroci che vengono ordinati e mandati a guidare diocesi anche lontane centinaia di chilometri dalla propria terra d’origine. Sud, nord, centro: non fa differenza. I limiti territoriali, le regioni ecclesiastiche fino a qualche tempo fa confini quasi non attraversabili, non lo sono più. Il più delle volte, stupendo. Come accaduto lo scorso maggio, quando il cardinale Angelo Bagnasco annunciò che il suo successore sarebbe stato padre Marco Tasca, un frate minore convenutale padovano, sconosciuto ai più e in modo particolare al clero genovese che pure era stato consultato – consultazioni che sono, come sempre, di pura prammatica e che raramente risultano decisive alla scelta finale. La sinodalità si porta bene per i discorsi da convegno e gli editoriali, per gli elzeviri e i saggi di dotti commentatori di cose ecclesiastiche, ma nella realtà la democrazia con la chiesa non ha niente a che vedere –. Da dove salta fuori? si chiedevano in parecchi, andando a leggere il curriculum del frate spedito a Genova per cercare di cogliere la ragione per la quale il Papa avesse scelto proprio lui (i due si conoscevano da anni, come testimoniano alcune foto che li ritraggono insieme, durante una messa celebrata a Buenos Aires) per la delicata sede ligure. Mons. Tasca, così diverso da Bagnasco, tanto ieratico quest’ultimo quanto “rustico” il primo, ha subito fatto capire che anche nella principesca Genova che fu di Siri è tempo di andare avanti, vino nuovo in otri nuovi.

   

Niente carrierismo, si dice. Basta con le promozioni automatiche, delfini di cardinali che automaticamente accedevano a sedi che poi davano diritto alla porpora. Lo fa anche con i propri segretari part time, nominati a tempo e rimandati poi a fare quel che facevano prima. Senza scandalo alcuno. A Piacenza, mentre i rumor giornalistici e le chiacchiere curiali stilavano graduatorie di “papabili” alla sede di mons. Gianni Ambrosio, Francesco sceglieva il vicario generale della diocesi di Treviso. Nella sorpresa generale. E i precedenti sono tanti, da Palermo al vicariato di Roma. E’ un progetto chiaro: il cambiamento non può che avvenire dalla base. Più che i documenti, sono i territori a dare corpo all’idea di chiesa che ha Francesco. E’ un cambio di mentalità, totale. Nelle situazioni che meglio conosce, la svolta è ancora più radicale, al limite dell’umiliazione per i vescovi pensionati. Due casi su tutti: a Città del Messico concesse una proroga brevissima all’arcivescovo cardinale Norberto Rivera Carrera, a Lima esautorò il cardinale Luis Cipriani pochi giorni dopo il compimento del settantacinquesimo anno d’età. In entrambi i casi i successori erano agli antipodi: in Messico fu scelto il cardinale Carlos Aguiar Retes, non in particolare sintonia (eufemismo) con Rivera Carrera; a Lima fu promosso addirittura il sacerdote che Cipriani sospese dall’insegnamento perché reo d’essere legato alla Teologia della liberazione, Carlos Castillo Mattasoglio. Che nell’anno di episcopato appena trascorso ha cercato di fare tabula rasa – legittimamente – di quanto lasciato dal predecessore.

      


La lezione del giovane Bergoglio a un sacerdote: “Ti ho provato. Tu hai imparato questo: se tu la custodisci, la pecora ti segue”


        

La nuova mappa episcopale prende corpo, sempre di più. Il cardinale Bernardin Gantin, già prefetto della Congregazione per i vescovi e decano del Sacro Collegio, se fosse vivo sposerebbe senza esitazione la rivoluzione. “Quando viene nominato – disse anni fa in un’intervista al mensile 30 Giorni – il vescovo deve essere per il popolo di Dio un padre e un pastore. E padre lo si è per sempre. E così un vescovo, una volta nominato in una determinata sede, in linea di massima e di principio deve rimanere lì per sempre. Sia chiaro. Quello tra vescovo e diocesi viene raffigurato anche come un matrimonio e un matrimonio, secondo lo spirito evangelico, è indissolubile. Il nuovo vescovo non deve fare altri progetti personali. Ci possono essere motivi gravi, gravissimi, per cui l’autorità decida che il vescovo vada, per così dire, da una famiglia a un’altra. Nel fare questo l’autorità tiene presente numerosi fattori, e tra questi non vi è certo l’eventuale desiderio di un vescovo di cambiare sede”.

   

Si rifaceva, il cardinale Gantin, a un articolo del cardinale Vincenzo Fagiolo che diceva le medesime cose: “Il vescovo che viene nominato non può dire ‘sono qui per due o tre anni e poi sarò promosso per le mie capacità, i miei talenti, le mie doti…’”. Profetico, fu Gantin, anche in riferimento alle diocesi cardinalizie, concetto assai rivisto da Francesco: “Il concetto delle diocesi cosiddette cardinalizie deve essere molto relativizzato. Il cardinalato è un servizio che viene chiesto a un vescovo o a un sacerdote tenendo conto di tante circostanze. Oggi nei paesi di recente evangelizzazione, come in Asia e in Africa, non ci sono sedi cosiddette cardinalizie ma la porpora viene data alla persona. Dovrebbe essere così dappertutto, anche in occidente. Non ci sarebbe una deminutio capitis, né ci sarebbe mancanza di rispetto se, ad esempio, l’arcivescovo della grandissima arcidiocesi di Milano, come anche di altre diocesi pure antiche e prestigiose, non venisse fatto cardinale. Non sarebbe una catastrofe”.

   


“Il vescovo che viene nominato non può dire ‘sono qui per due o tre anni e poi sarò promosso per le mie capacità’”, disse il cardinale Gantin


    

Non proprio sulla stessa linea s’era espresso il grande filosofo cattolico Robert Spaemann, a giudizio del quale “sono stati fatti entrare nel governo della chiesa vescovi completamente sconosciuti, che a volte hanno quindicimila cattolici nelle loro diocesi”. I casi sono ormai molteplici, basta scorrere le liste delle creazioni cardinalizie dal 2014 in poi. E sono in parecchi a pensarla allo stesso modo: è giusto non promuovere un vescovo? Se un presule è capace, meritevole, senza scheletri nell’armadio, capace di mantenere viva la diocesi, perché non dovrebbe poter aspirare al trasferimento in una diocesi più grande, più “complicata”, con più popolo fedele e sacerdoti? Si depreca tanto, e giustamente, il carrierismo nella chiesa. Vescovi che in cuor loro bramano per essere nominati in una determinata sede che ha la cattedra foderata di rosso porpora ce ne sono, certo. Ma ci sono anche tanti che vivono il ministero come semplici preti, senza ambizioni, ma con tanta capacità. Che non fanno i custodi di un museo. E’ giusto confinarli a vita in una diocesi piccola, magari periferica, ancora in funzione solo perché è dura andare a toccare equilibri storici, culturali e politici? (In Italia si sta tentando di razionalizzare il sistema, ma ogni qualvolta si ipotizza un accorpamento, pletore di sindaci e notabili locali gridano all’Apocalisse, minacciando ricorsi ovunque, anche al Papa). Anche perché nel ragionamento di Gantin c’è un rovescio della medaglia non di poco conto: e se il novello vescovo, pescato in qualche parrocchia, pur con tutta la buona volontà si dimostra fragile o non adeguato a fare il vescovo di una grande diocesi? Di esempi, anche qui, ce ne sarebbero diversi da fare. E’ sufficiente sfogliare le cronache e non serve andare troppo lontano per leggere di novelli vescovi, magari con un orizzonte temporale lunghissimo di venti-venticinque anni, catapultati da parrocchie pur significative a metropolie che incontrano resistenze e difficoltà di ogni sorta nell’esercizio del ministero. E in questi casi, cosa si fa? Bella domanda. Un vescovo già esperto è più facilmente valutabile, se ne conoscono i pregi, i punti di forza e quelli critici. Ma la valutazione, che segue ancora oggi un iter lungo e complesso – anche se alla fine il Pontefice può decidere come vuole, non attenendosi a suggerimenti, vota e rapporti – è meno appesa agli umori e alle sensazioni. Si guardi a Parigi, dove è da pochi anni divenuto arcivescovo Michel Aupetit, già vescovo ausiliare della capitale francese e quindi per un triennio di Nanterre. Poca carriera ecclesiastica – anche perché Aupetit è diventato prete a ben quarantatré anni, prima faceva il medico – e buone basi su cui ponderare la felice decisione di trasferirlo a Parigi.

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