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Riserve su fratel Enzo Bianchi

Giuliano Ferrara

L’anticlericalismo del fondatore di Bose era un guaio che illumina diversi guai dell’evangelismo postconciliare

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Paolo VI alla chiusura del Vaticano II, nel dicembre del 1965, si attendeva che il Sinodo universale fosse capace di sprigionare, nella sua vitalità, “generose e ordinate energie”. Non è andata così, e per quel Papa fu motivo di altra malinconia. Cinquantacinque anni dopo Enzo Bianchi, che proprio in quell’anno fondò la comunità monastica di Bose, è stato allontanato da Papa Bergoglio, insieme con i collaboratori più stretti, dalla comunità. Bianchi amareggiato si è riferito all’amore, che resta oltre le cose che finiscono. L’amore, concetto generoso, e pratica infinita di carità, ma non ordinata energia. Sembra che tra il fondatore e il successore fosse in atto una poco fraterna contesa di potere, spirituale s’intende, ma non solo, e che su questo incaglio doloroso la storia sia finita (male). Ritrarsi da una situazione per la quale si hanno responsabilità fondative richiede ordine e energia, l’amore in questo caso va al seguito. Altrimenti nascono inauditi pasticci.

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Paolo VI alla chiusura del Vaticano II, nel dicembre del 1965, si attendeva che il Sinodo universale fosse capace di sprigionare, nella sua vitalità, “generose e ordinate energie”. Non è andata così, e per quel Papa fu motivo di altra malinconia. Cinquantacinque anni dopo Enzo Bianchi, che proprio in quell’anno fondò la comunità monastica di Bose, è stato allontanato da Papa Bergoglio, insieme con i collaboratori più stretti, dalla comunità. Bianchi amareggiato si è riferito all’amore, che resta oltre le cose che finiscono. L’amore, concetto generoso, e pratica infinita di carità, ma non ordinata energia. Sembra che tra il fondatore e il successore fosse in atto una poco fraterna contesa di potere, spirituale s’intende, ma non solo, e che su questo incaglio doloroso la storia sia finita (male). Ritrarsi da una situazione per la quale si hanno responsabilità fondative richiede ordine e energia, l’amore in questo caso va al seguito. Altrimenti nascono inauditi pasticci.

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Nel suo succinto e distinto saggio sulla debolezza o miseria dell’uomo, Pierre Nicole, giansenista, scriveva nel Seicento: “L’orgoglio che nasce dalle qualità spirituali è dello stesso genere di quello fondato sui vantaggi esteriori; consiste medesimamente in un’immagine che ci fa grandi ai nostri occhi, facendoci sentire degni di stima e di preferenza. Sia che quest’immagine venga formata su qualche qualità che si riconosce nitidamente in noi, sia che si tratti solo del contorno confuso d’una qualche eccellenza e grandezza che ci attribuiamo da noi” (nuova edizione in liberilibri, a cura di Marco Lanterna, traduttore e prefatore). Il rischio di un enfisema del cuore e di una coperta vanità è sempre in agguato, secondo questo notevole moralista di Port Royal, amico sensibile di Arnauld e di Pascal. Su fratel Bianchi ho sempre nutrito la riserva psicologica inerente proprio a questo rischio.

  

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Niente di personale. L’ho incontrato una volta per caso a Torino, in luogo culturale e mangereccio, e fu all’erta, ma gentile nel salutarmi con amabilità e un sorriso tirato.

 

Niente di personale, a suo favore testimoniava comunque la stima fervente di persone che stimo, per esempio Pietro Citati o Silvia Ronchey. E’ che il vangelo mi è sempre sembrato un gran libro che istituiva una chiesa, alla quale era demandato esplicitamente come roccia di trasmetterlo. Alle prese con la resurrezione, senza di che paolinamente la fede non esiste, sconfitto nella fede credevo per lo meno in questo storico e metastorico potere della chiesa, e nutro ancora il dubbio che senza il cristianesimo e le sue chiese, come senza l’ebraismo, il mio mondo, il mio dico, non si regga in piedi né in occidente né in oriente. Il libero esame scritturale affida alle comunità, ai dottori teologali, ai pastori, infine allo stato, un compito probabilmente superiore alle loro forze: è la grande insurrezione intellettuale della modernità, è grande in sé come la grazia che predica, ma non so quanto regga.

Bianchi mi è sempre sembrato uno che ama confondere le cose, mescolare le spiritualità in nome della cultura laica di cui si fa campione nel monachesimo, ciò che peraltro non solo è possibile ma bello, però con un di più di egemonismo delle idee, di avversione così di moda al clericalismo, che a mio modo di vedere è un pilastro della religione. Lo preferisco di gran lunga alla mistica, filosofia e psicanalisi. Anche il suo orientalismo e il suo vangelo sine glossa mi sono sempre sembrati eruditi, coltivati, insigni a loro modo, eppure manchevoli dell’umiltà troppo ostentatamente predicata. Diffido, l’ho detto, degli eccessi d’amore, che vanno bene negli stilnovismi e nelle manie scespiriane o cervantine, ma non nella liturgia, non nel contesto di energie generose e ordinate. Il fondatore di Bose era invece il prediletto del mondo, di una spiritualità elevata, ricercata, eppure mondana, appunto.

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Non so come siano andate le cose e aspetto di capire la posizione non solo innamorata di Bianchi per non dico giudicare, chi sono io eccetera, ma per intendere se si possa farlo. Certo sarà necessario alla luce della contesa e della sua biliosa definizione riprendere da Benedetto XVI, da Ratzinger, il discorso sul dopo del concilio, del Vaticano II. Non è detto che l’allontanamento di Bianchi, fondatore, voglia dire che la comunità monastica di Bose è appassita, ma di sicuro questa fioritura dell’anticlericalismo e orientalismo e evangelismo postconciliare andrà guardata con occhi meno reverenti e pensosi, meno umidi e emotivi, di quanto sia stato fatto fino a ora. Secondo la grazia presunta e secondo natura e storia effettuali. Pierre Nicole scriveva anche, nell’ultimo capitoletto del saggio: “Se è vero che nulla mostra meglio della miseria umana la potenza della grazia divina, si può dire altresì che nulla scopre meglio tale miseria della grazia stessa”.

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