PUBBLICITÁ

La nostalgia di Dio

Matteo Matzuzzi

Oltre il dibattito sulle chiese aperte o chiuse. Come si può vivere la fede ai tempi della pandemia

PUBBLICITÁ

All’alba, a mezzogiorno, a sera, una campana del duomo dava il segno di recitar certe preci assegnate dall’arcivescovo: a quel tocco rispondevan le campane dell’altre chiese; e allora avreste veduto persone affacciarsi alle finestre, a pregare in comune; avreste sentito un bisbiglio di voci e di gemiti, che spirava una tristezza mista pure di qualche conforto”.

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


All’alba, a mezzogiorno, a sera, una campana del duomo dava il segno di recitar certe preci assegnate dall’arcivescovo: a quel tocco rispondevan le campane dell’altre chiese; e allora avreste veduto persone affacciarsi alle finestre, a pregare in comune; avreste sentito un bisbiglio di voci e di gemiti, che spirava una tristezza mista pure di qualche conforto”.

PUBBLICITÁ

(I Promessi sposi, cap. XXXIV)

  

Sedici giorni di processione a Roma nel 1522. Il Crocifisso miracoloso di San Marcello davanti, le litanie e i miserere dietro

Sarebbe stato imperdonabile, il segno della resa definitiva, togliere ai romani la preghiera al Santissimo Crocifisso di San Marcello al Corso. Se le chiese fossero state chiuse, serrata risparmiata perfino a lavanderie e negozi di casalinghi, nessuno avrebbe più potuto guardare neanche da lontano quel manufatto ligneo del Quattordicesimo secolo, scampato a un incendio e che in pieno Cinquecento fu portato in processione per salvare i rioni cittadini dalla peste. Sedici giorni durò la preghiera, tra appelli alla divina misericordia e continui miserere intonati da monaci e frati, nobiluomini e dame. Oggi, che sappiamo meglio come si comportano i virus, non è il caso d’organizzare processioni pubbliche, tanto chi deve guardare dall’alto sa già tutto e bastano allora le invocazioni alla Madunina sulle terrazze del Duomo di Milano, così come le statue di santi e le grandi croci poste da qualche parroco sulla soglia delle chiese. Il Papa ha capito subito quanto male – soprattutto allo spirito – avrebbe fatto la gran serrata, il chiudersi dentro il fortino aspettando che la buriana passi, con il suo quotidiano bollettino di contagiati e morti. L’ha capito al punto che si è messo lui in strada, pellegrino da Santa Maria Maggiore a San Marcello, domenica scorsa. Invocando la protezione divina e la fine della pestilenza.

 

Le chiese restano aperte, anche se le messe aperte al popolo non lo sono. Prevenire è meglio che curare, il morbo si propaga velocemente dove ci sono più persone. Verrà il tempo per tutto, per riprendere processioni e celebrazioni. Ora è il momento della quaresima, reale e vissuta nella carne. Non solo una scadenza da calendario liturgico, ma una realtà per i cristiani privati in questo tempo forte del Pane (con la maiuscola) e costretti a vivere la mancanza; una mancanza che però genera una domanda, grande e inattesa. L’ateo Ugo Foscolo la mette in bocca al suo Jacopo Ortis, il quale cerca, disperato, un appiglio estremo: “Scintillavano tutte le stelle, e mentr’io salutava ad una ad una le costellazioni, la mia mente contraeva non so che di celeste, ed il mio cuore s’innalzava come se aspirasse ad una regione più sublime assai delle terra”.

 

Pochi giorni fa un anziano sacerdote salesiano raccontava uno scambio di messaggi avvenuto su Whatsapp con una sua amica, che domandava semplicemente quando sarebbero riprese le lodi e la messa del mattino. Il prete ha risposto: “Speriamo presto. Ma l’amore che tu porti per Gesù non te lo toglie nessuno. Anzi, rinasce la nostalgia di Dio e vivi in continuo desiderio di Lui e questa è la vera comunione spirituale. Nella mia cameretta ho l’altarino mobile, regalo prezioso del gruppo della mia ordinazione sacerdotale e quindi posso sempre celebrare l’eucaristia e sono unito anche a te e a tutto il mondo, in particolare quelli con cui ci incontravamo ogni mattina e in comunione con tutti i santi, con tutti i miei cari e con tutti i giovani che incontro e incontrerò, anche con quelli che non credono al nostro Dio, o che sono molto lontani”.

PUBBLICITÁ

 

PUBBLICITÁ

Ecco il punto: la nostalgia di Dio che rinasce. Perché nella mancanza si riscopre il tutto, ciò che conta davvero per chi ci tiene. Si percepisce in modo sensibile che l’eucaristia non è una routine domenicale, da inserire tra la sosta in pasticceria e la preparazione del pranzo domenicale. Che non è un rito fine a se stesso, non è la vidimazione d’un biglietto settimanale per mettere a posto la coscienza. Non è solo un precetto, ma “una necessità interiore”, come disse Benedetto XVI a Vienna nel 2007: “Senza Colui che sostiene la nostra vita, la vita stessa è vuota. Lasciar via o tradire questo centro toglierebbe alla vita stessa il suo fondamento, la sua dignità interiore e la sua bellezza”.

 

PUBBLICITÁ

Tutto era scontato. Si sceglieva la messa a seconda della durata, la chiesa in base agli arredi. Fino all’arrivo di questo lungo Sabato santo

La quaresima di quest’anno fa comprendere il senso profondo di questo aspetto, rendendo chiaro quanta innocente superficialità ci fosse, spesso, nelle azioni quotidiane prima dell’avvento della tragedia. Un vivere normale scandito da riti e gesti, spesso compiuti più per tradizione (con la minuscola) e con poco coinvolgimento interiore. Un vivere normale che si blocca davanti all’imprevisto, all’inatteso che desta sconcerto e pone domande. E’ un po’ come dice il protagonista della Caduta di Albert Camus, che passava di festa in festa fino al punto di non ritorno: “Ero a mio agio in tutto, è vero, ma anche perennemente insoddisfatto. Ogni piacere me ne faceva desiderare un altro. Mi capitava di ballare notti intere, sempre più infervorato dagli esseri umani e dalla vita. A volte, a notte fonda, mi sembrava allo stremo della stanchezza e nello spazio di un secondo, di cogliere finalmente il segreto degli esseri umani e del mondo. Ma l’indomani la stanchezza spariva e con essa il segreto; tutto ricominciava. Così correvo, sempre appagato, mai soddisfatto, senza sapere dove fermarmi, fino al giorno, o meglio fino alla sera in cui la musica si è fermata, in cui le luci si sono spente”. Tutto era scontato. Si sceglieva la messa a seconda della durata, la chiesa in base all’arredo liturgico, il prete se simpatico. Un portfolio davanti, insomma, per chi poteva permetterselo. Fino allo stop, al lungo Sabato santo che stiamo vivendo in cui tutto è sospeso, le certezze sono crollate, le sicurezze pure e la solitudine s’è insediata non solo nei salotti e nelle camere, ma anche in noi.

 

Davvero allora ha ragione il dottor Amedeo Capetti, infettivologo all’ospedale Sacco di Milano, che pochi giorni fa, riflettendo su quanto vedeva per lunghe ore in reparto tra i malati di Covid-19, scriveva su questo giornale che “quello che io sto vivendo, ma credo sia esperienza anche di molti altri, è l’avverarsi di un fenomeno che non di rado noi medici vediamo in chi è scampato a un pericolo potenzialmente mortale: l’esperienza di aprire gli occhi e accorgersi che nulla è più scontato. Ossia che tutto è dono, dal risveglio del mattino, dal saluto ai propri cari a ogni piccola piega di un quotidiano che per alcuni è tutto da riempire, per altri come me è diventato, se mai era pensabile, più vorticoso di prima”. Nulla è scontato.

 

Le campane sono rimaste il segno della Presenza, anche se il loro suono, da festoso, s’è fatto sempre più lugubre

Ha chiuso, per la prima volta da quando esiste, il Santuario di Lourdes, meta di tanti che lì cercavano salvezza e conforto. Sono vuote le grandi chiese e basiliche sorte nei secoli proprio come segno di ringraziamento per le pestilenze. Come la Madonna della Salute a Venezia, edificata per volere del doge del tempo, che durante la peste del 1630, fece voto solenne che proprio in quel punto avrebbe fatto costruire una grande chiesa se il morbo avesse smesso di portare morte. Ogni tanto, qualche sacerdote pone il Santissimo sull’altare o esce sul sagrato a benedire le strade semivuote o percorse da distratti podisti e gente che s’affretta tra supermercati e farmacie. Le campane sono rimaste il segno della Presenza, anche se il loro suono s’è fatto lugubre. In un comune della bergamasca, il parroco ha deciso che a morto si suonano una volta sola al giorno, perché con tutti quelli che quotidianamente vanno all’altro mondo, i rintocchi sarebbero perpetui. All’inizio dell’epidemia, quando ancora non era pandemia e si borbottava per le messe celebrate senza popolo, tanti vescovi avevano comunque disposto che le campane suonassero a festa nel momento in cui il sacerdote iniziava la liturgia, così da riunire spiritualmente attorno alla mensa tutto il popolo. Poi, giorno dopo giorno, bollettino dopo bollettino, i concerti festosi hanno lasciato il posto al rintocco funebre. I morti che muoiono da soli, senza funerale, inviati a un crematorio lontano perché bisogna fare in fretta. Verrebbe la tentazione di fare come Søren Kierkegaard, che ne “La Ripetizione” invocò Giobbe il giusto affinché si facesse portavoce dell’umanità intera presso Dio, per protestare l’ingiustizia terrena: “E quindi parla tu, indimenticabile Giobbe! Ripeti tutto quanto dicesti, patrono formidabile che appari al tribunale dell’Altissimo coll’ardire di un leone ruggente!”.

 

Sembra davvero d’essere stati catapultati nei luoghi manzoniani, di rivivere le scene descritte nei Promessi sposi: “All’alba, a mezzogiorno, a sera, una campana del duomo dava il segno di recitar certe preci assegnate dall’arcivescovo: a quel tocco rispondevan le campane dell’altre chiese; e allora avreste veduto persone affacciarsi alle finestre, a pregare in comune; avreste sentito un bisbiglio di voci e di gemiti, che spirava una tristezza mista pure di qualche conforto. Morti a quell’ora forse i due terzi de’ cittadini, andati via o ammalati una buona parte del resto, ridotto quasi a nulla il concorso della gente di fuori, de’ pochi che andavan per le strade, non se ne sarebbe per avventura, in un lungo giro, incontrato uno solo in cui non si vedesse qualcosa di strano, e che dava indizio d’una funesta mutazione di cose”.

 

Ha scritto Gianfranco Brunelli, direttore della rivista cattolica Il Regno, che “di fronte a un nemico invisibile e presente, impalpabile e certo, che assume il volto possibile di ogni persona che incontriamo, di ogni relazione e rapporto, persino di quelli più intimi e familiari, ci sentiamo improvvisamente indifesi, esposti, smarriti. E’ una fragilità anzitutto personale, come di chi sa d’essere esposto in prima persona all’incertezza di una malattia e del proprio destino e poi, immediatamente, legata a quello dei propri cari, dei propri amici. E’ una fragilità che mette fuori gioco molte delle relazioni interpersonali e sociali. Una sorta di sospensione sine die del proprio modo d’essere. E’ una fragilità personale, anche quando viene nascosta e confusa in raduni di massa”.

 

Dalle gerarchie ecclesiastiche (salvo rare eccezioni) non è venuta una parola forte su quel che stiamo vivendo e sperimentando

Nascosta e confusa, anche, per tentare di esorcizzare la paura. Compresa quella della morte. Ed è su questo che è mancata, nota Brunelli, una parola forte da parte della chiesa, per troppi giorni impelagata nei meandri di note e comunicati trasudanti lessico burocratico, tra richiami a decreti governativi e disposizioni varie. Poche parole davvero cristiane dai vescovi, se non qualche lodevole caso, ma sporadico: non si domandava certo di vedere emuli di Carlo Borromeo, ma neppure pastori pronti a trincerarsi in episcopi dopo aver prontamente chiuso a doppia mandata cattedrali e chiesette di campagna. Guai ai don Abbondio, ha detto non a caso Francesco, esortando i sacerdoti ad andare verso i sofferenti. Molti lo fanno già, come frate Aquilino, l’ottantaquattrenne cappellano dell’ospedale Giovanni XXIII di Bergamo: “I famigliari dei defunti che non possono più vedere o stare accanto ai loro cari mi chiamano, io metto il cellulare sulle salme e preghiamo insieme”. Spesso, ha detto in un’intervista a Radio inBlu, piangendo. O come ha fatto quel sacerdote che ha spalancato il portale della sua chiesa parrocchiale, ha messo sulla soglia un grande Crocifisso con un cartello che riportava una frase di Cristo, “io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”.

 

“Siamo entrati in una lunga vigilia, un’interminabile veglia notturna. E’ il Sabato santo della fede, il giorno a-liturgico per eccellenza, un tempo denso di sofferenza, di smarrimento, d’attesa e di speranza, che sta tra il dolore della croce e la gioia della Pasqua. Il giorno del silenzio di Dio”, ha aggiunto Brunelli nella sua riflessione. Se la chiesa non coglie l’occasione che ha davanti a sé, la grande domanda posta dalla tragedia di cui stiamo facendo esperienza resterà inevitabilmente senza risposta.

Di più su questi argomenti:
PUBBLICITÁ