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Quella fotografia nella strada di Roma e un “Papa da toccare”

Maurizio Crippa

Francesco come lo ha vissuto, da molto vicino, Lucio Brunelli

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La fotografia è di quelle resteranno nella storia del pontificato, se non in quella della pandemia. Francesco cammina nella via del Corso deserta, ma rispettosamente sul marciapiede, per andare a pregare nella chiesa di San Marcello. Sarebbe bene restasse non per l’iconicità dello scatto, ma perché restituisce molto di Jorge Mario Bergoglio per l’uomo e il pastore che è. “Un Papa molto rappresentato dai media di tutto il mondo ma paradossalmente poco conosciuto nelle sue intenzioni più profonde”. Un Papa che non ha smesso di essere un parroco o “Padre Jorge”. Un Papa non tanto “callejero” (dopo sette anni l’esotismo si può tralasciare) quanto spirituale, e al contempo concreto nel suo rapporto diretto con le persone e le cose. Che è un po’ la percezione ritornata al centro della scena, nelle tribolate settimane recenti. Quando ha recitato l’Angelus chiuso in biblioteca; quando ha invitato i sacerdoti a portare l’eucarestia ai malati; quando ha rimbrottato il vicariato di Roma per aver chiuso le chiese; quando domenica ha ringraziato l’arcivescovo di Milano Mario Delpini e i sacerdoti (lombardi) per la loro creatività, “in tempi di pandemia non si deve fare il ‘don Abbondio’”. In tempi in cui non ci si può nemmeno sfiorare, torna con forza persuasiva la figura di Francesco come “un Papa da toccare”, secondo la definizione del cardinale Tauran: tanto quanto Giovanni Paolo II era stato un Papa da vedere e Benedetto XVI un Papa da leggere. Ma ancora di più, secondo Lucio Brunelli, quel che colpisce è “che è uomo perdonato”. Come disse nel “discorso più bello del pontificato”. Bolivia, carcere di Palmasola, 10 luglio 2015: “‘Chi c’è davanti a voi? Potreste domandarvi. Vorrei rispondere alla domanda con una certezza della mia vita, con una certezza che mi ha segnato per sempre. Quello che sta davanti a voi è un uomo perdonato. Un uomo che è stato ed è salvato dai suoi molti peccati”.

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La fotografia è di quelle resteranno nella storia del pontificato, se non in quella della pandemia. Francesco cammina nella via del Corso deserta, ma rispettosamente sul marciapiede, per andare a pregare nella chiesa di San Marcello. Sarebbe bene restasse non per l’iconicità dello scatto, ma perché restituisce molto di Jorge Mario Bergoglio per l’uomo e il pastore che è. “Un Papa molto rappresentato dai media di tutto il mondo ma paradossalmente poco conosciuto nelle sue intenzioni più profonde”. Un Papa che non ha smesso di essere un parroco o “Padre Jorge”. Un Papa non tanto “callejero” (dopo sette anni l’esotismo si può tralasciare) quanto spirituale, e al contempo concreto nel suo rapporto diretto con le persone e le cose. Che è un po’ la percezione ritornata al centro della scena, nelle tribolate settimane recenti. Quando ha recitato l’Angelus chiuso in biblioteca; quando ha invitato i sacerdoti a portare l’eucarestia ai malati; quando ha rimbrottato il vicariato di Roma per aver chiuso le chiese; quando domenica ha ringraziato l’arcivescovo di Milano Mario Delpini e i sacerdoti (lombardi) per la loro creatività, “in tempi di pandemia non si deve fare il ‘don Abbondio’”. In tempi in cui non ci si può nemmeno sfiorare, torna con forza persuasiva la figura di Francesco come “un Papa da toccare”, secondo la definizione del cardinale Tauran: tanto quanto Giovanni Paolo II era stato un Papa da vedere e Benedetto XVI un Papa da leggere. Ma ancora di più, secondo Lucio Brunelli, quel che colpisce è “che è uomo perdonato”. Come disse nel “discorso più bello del pontificato”. Bolivia, carcere di Palmasola, 10 luglio 2015: “‘Chi c’è davanti a voi? Potreste domandarvi. Vorrei rispondere alla domanda con una certezza della mia vita, con una certezza che mi ha segnato per sempre. Quello che sta davanti a voi è un uomo perdonato. Un uomo che è stato ed è salvato dai suoi molti peccati”.

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Il ricordo di Brunelli è illuminante. Aiuta a capire Francesco senza doverlo spiegare teologicamente, ma avendolo visto all’opera ed essendone stato toccato, in una lunga consuetudine non solo professionale. E’ la cosa che rende più utile (e credo ripaghi l’autore della fatica di scriverlo e anche di rivelare i suoi ricordi più personali, lui che è tanto riservato) il racconto di Lucio Brunelli, ex direttore del tg di Tv2000 e in precedenza vaticanista del Tg2, nel suo Papa Francesco come l’ho conosciuto io, pubblicato dalle Edizioni San Paolo. “La prima volta che sentii parlare di lui fu nella primavera del 2001”, A Buenos Aires, gli dissero, “c’è un nuovo cardinale che vive come un monaco, non ha né autista né macchina, si muove con i mezzi pubblici”. Si alzava alle 4.30 per pregare quando era ancora buio ed era amico dei parroci delle villas miserias. “Ascoltavo incuriosito, quasi incredulo. Da vent’anni, come giornalista, mi occupavo di informazione religiosa e un cardinale così non l’avevo mai incontrato”. Ci vollero anni prima che l’occasione arrivasse, prima erano arrivate altre testimonianze su questo “uomo di Dio” da parte di chi lo conosceva, come il suo amico di una vita e giornalista dal Sudamerica Alver Metalli, che oggi ha scelto di vivere con padre Pepe in una delle villas. O di Gianni Valente che li aveva incontrati, padre Pepe e Bergoglio, per un lungo reportage per la rivista 30 Giorni. Poi i primi incontri, le mail professionali, dapprima formali (il cardinale rispondeva in un italiano incerto, per poi tornare al castigliano) e poi sempre più personali. “Non era più solo la curiosità del giornalista, c’era qualcosa di più che mi interessava in quest’uomo, il segreto della sua pace”. Non una biografia, non un bilancio del pontificato. “Doveva essere un diario dei miei ricordi personali di Papa Francesco da condividere con figli, parenti e amici. Un lascito di memoria da predisporre in tempo, prima di perderla, la memoria”. Scritto con la nuova calma di pensionato, ma “mi ritrovavo a sorridere o a emozionarmi. Perché il rapporto che il buon Dio mi ha concesso di vivere con Jorge Mario Bergoglio ha toccato in profondità la mia vita”.

 

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Brunelli è un ottimo giornalista e dissemina il suo racconto con analisi ridotte al minimo, con gustosi aneddoti e dietro le quinte inediti, frammenti di vita. Le telefonate inattese da “un numero sconosciuto”, il senso di “pace interiore” che “Padre Jorge” trasmette a chi lo incontra di persona. La fede umile: “Prega per me”, chiede sempre. Più di una volta, dopo un incontro pubblico, Francesco gli dice: “Ma tu c’eri? Non ti ho visto”. Commenta Brunelli: “Col tempo imparai che aveva a che fare con il suo modo di guardare le masse. Passando con la papamobile non inquadrava la grande folla indistinta, cercava i volti delle singole persone. Preferiva i primi piani ai totali”. Il progredire di un rapporto personale. Che è in fondo il racconto di come si trasmette il cristianesimo: con la misericordia e l’attrattiva amorosa della Grazia. Tanti sono i racconti di questo rapporto personale, e dei rapporti personali che Francesco continua a considerare il centro della sua missione. Anche da Papa (in fondo è questo che turba i “clericali”). Una volta gli raccontò di una collega che gli aveva espresso il desiderio di confessarsi, dopo 40 anni. Lo interruppe subito: “Mi raccomando indicale un prete misericordioso, che sia misericordioso! Altrimenti la mandi da me”.

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