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La rivolta di un cardinale cinese contro il Papa apre un’altra ferita nella chiesa

L’ex arcivescovo di Hong Kong: “Se il Vaticano si accorderà con Pechino, dovremo seguire la nostra coscienza”
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Roma. Il cardinale Joseph Zen Ze-kiun, arcivescovo emerito di Hong Kong, si appella ai cattolici cinesi affinché contemplino l’idea di non considerare valido l’eventuale accordo che la Santa Sede potrebbe raggiungere con le autorità di Pechino, se riterranno che l’agreement “sia contrario al principio di fede”. Il porporato salesiano lo scrive sul suo blog personale, attaccando “i filogovernativi” e “gli opportunisti della chiesa” auspicanti che Roma firmi al più presto “un accordo per legittimare l’attuale situazione anomala”. Zen parte dal presupposto che ogni intesa possibile – che appare probabile, se si leggono le pur prudenti dichiarazioni degli ultimi mesi rese dai principali tessitori del negoziato vaticani – porterà la firma del Papa. Se pace sarà, insomma, lo si dovrà al via libera di Francesco. Di conseguenza, prosegue il cardinale cinese, bisognerà obbedire “a tutto ciò che egli dirà”. Però, aggiungeva, “il criterio ultimo per giudicare come comportarci è la coscienza” e quindi “se secondo la coscienza il contenuto di un accordo è contrario al principio di fede, non va seguito”.

 

Zen è sempre stato contrario a ogni intesa con Pechino, perché a suo giudizio significherebbe una capitolazione dinanzi ai desiderata dei vertici comunisti che hanno costretto per decenni i cattolici del paese alla clandestinità. Il lavorIo diplomatico procede, lo scorso ottobre il segretario di stato, il cardinale Pietro Parolin – conoscitore come pochi altri del dossier cinese, avendo avuto un ruolo non indifferente nella preparazione della Lettera ai cattolici cinesi promulgata da Benedetto XVI nel 2007 – ammetteva che “non è la prima volta che una delegazione del Papa si reca a Pechino, fa parte di un certo percorso in vista di una normalizzazione dei rapporti e il solo fatto di poterci parlare è significativo”. Zen, solo pochi mesi prima, aveva detto che “avevo sempre avuto fiducia in Parolin, fino a quando non ho saputo che anche lui era a favore di un accordo che in questa fase sarebbe stato solo una resa incondizionata”. A Pechino, proseguiva, “non c’è volontà di dialogo. Vogliamo sacrificare la nomina e la consacrazione dei vescovi per un dialogo fasullo?”. Il punto dolente è proprio la nomina dei vertici episcopali, che la Santa Sede considera propria prerogativa mentre il governo ritiene essere affare di politica interna. La Lettera firmata da Joseph Ratzinger, a tal proposito, era chiara nell’indicare la linea da seguire: “La dichiarata finalità di attuare i princìpi di indipendenza e autonomia, autogestione e amministrazione democratica della chiesa è inconciliabile con la dottrina cattolica, che fin dagli antichi Simboli di fede professa la chiesa una, santa, cattolica e apostolica”.

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Che la questione sia delicata e quanto mai attuale lo dimostra quanto accaduto nelle ultime settimane a Shanghai, con il vescovo ausiliare Taddeo Ma Daqin che, dopo quattro anni di arresti domiciliari per essersi pubblicamente dimesso dall’Associazione patriottica nel momento – fu arrestato il giorno stesso dell’ordinazione – in cui ha pubblicato un articolo confessando i suoi errori ed elogiando “il ruolo insostituibile nello sviluppo della chiesa in Cina” rivestito dall’Associazione, emanazione diretta del Partito comunista. Vi sono dubbi, anche tra chi conosce mons. Ma Daqin, sul fatto che il ravvedimento sia genuino e non, piuttosto, indotto dalle autorità. C’è chi, ad esempio, sostiene che il presule abbia deciso di “umiliarsi” per il bene della diocesi, così da poter tornare a occuparsene in modo attivo e da uomo libero. Conservando nell’intimità la propria indiscussa fedeltà al Papa e manifestando in modo pubblico e visibile il sostegno all’organismo di controllo governativo.
A ogni modo, ha scritto Bernardo Cervellera, direttore di Asia News (portale del Pontificio istituto per le missioni estere), la vicenda pone ulteriori interrogativi: “L’articolo (del vescovo Ma Daqin, ndr) pieno di elogi sperticati verso l’Associazione patriottica, vanifica quanto Benedetto XVI aveva stabilito nella sua Lettera ai cattolici cinesi”.

 

Lo stupore più grande in molti cinesi, aggiunge Cervellera, “è dovuto al silenzio del Vaticano”, al punto che da più parti se ne chiede un intervento. Il  voltafaccia di mons. Ma Daqin, poi, rappresenterebbe “un fallimento della politica vaticana verso la Cina, secondo quanto osserva Cervellera riportando le dichiarazioni rese ad Asia News da un “professionista di Pechino”. In sostanza, “se l’articolo pubblicato è di mons. Ma Daqin, dobbiamo dire che il Vaticano ha fallito nella sua politica, che cercava il rapporto con il governo ma affermava che l’Associazione patriottica è inconciliabile con la dottrina cattolica. Se non è stato lui a scriverlo, allora è un gesto forzato e di persecuzione, che però nessuno denuncia, nemmeno la Santa Sede”.

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