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la fine degli eroi

Il virus ci mette di fronte alla morte: che rischi siamo disposti a correre per sfuggirle?

Michele Silenzi

La pandemia è rivelatoria, ci mostra che per vivere è necessario un rischio maggiore, oppure, che per ridurre il rischio, è necessario limitare la vita, ovvero la capacità di autodeterminarsi in libertà

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Nel 1974, Ernest Becker era morto da poco quando il suo libro, “The denial of death”, riceveva il premio Pulitzer divenendo subito un classico. Oggi appare un po’ datato nel suo nucleo centrale in gran parte dedicato ad Otto Rank e Søren Kierkegaard, ma l’intuizione da cui prende avvio la sua riflessione resta attualissima: l’uomo teme la morte più di ogni altra cosa, e tutto ciò che fa, lo fa per provare a sfuggirle. L’eroismo, in tutte le sue forme, è sempre stato la manifestazione più evidente e ricorsiva del suo tentativo di eternarsi. E’ al coraggio, inteso come capacità di fronteggiare il pericolo e dunque la morte, che per millenni abbiamo donato la nostra più grande ammirazione proprio perché rappresentava la caratteristica principale dell’eroismo che a sua volta era il principale “progetto d’immortalità”. Per questo, Becker definisce “naturale” la spinta all’eroismo. La società contemporanea, data la sua evoluzione, offre sempre meno opportunità (e credibilità) a questa soluzione di riparo dalla paura della morte che accompagna l’uomo dall’alba della coscienza. Il progressivo imbarazzo che oggi sentiamo ogni volta che si parla di eroi, come fosse un retaggio quasi neolitico, ci mostra con chiarezza non che siamo diventati dei mollaccioni, ma che tutto un orizzonte esistenziale e di percezione del reale è mutato irreversibilmente.

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Nel 1974, Ernest Becker era morto da poco quando il suo libro, “The denial of death”, riceveva il premio Pulitzer divenendo subito un classico. Oggi appare un po’ datato nel suo nucleo centrale in gran parte dedicato ad Otto Rank e Søren Kierkegaard, ma l’intuizione da cui prende avvio la sua riflessione resta attualissima: l’uomo teme la morte più di ogni altra cosa, e tutto ciò che fa, lo fa per provare a sfuggirle. L’eroismo, in tutte le sue forme, è sempre stato la manifestazione più evidente e ricorsiva del suo tentativo di eternarsi. E’ al coraggio, inteso come capacità di fronteggiare il pericolo e dunque la morte, che per millenni abbiamo donato la nostra più grande ammirazione proprio perché rappresentava la caratteristica principale dell’eroismo che a sua volta era il principale “progetto d’immortalità”. Per questo, Becker definisce “naturale” la spinta all’eroismo. La società contemporanea, data la sua evoluzione, offre sempre meno opportunità (e credibilità) a questa soluzione di riparo dalla paura della morte che accompagna l’uomo dall’alba della coscienza. Il progressivo imbarazzo che oggi sentiamo ogni volta che si parla di eroi, come fosse un retaggio quasi neolitico, ci mostra con chiarezza non che siamo diventati dei mollaccioni, ma che tutto un orizzonte esistenziale e di percezione del reale è mutato irreversibilmente.

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L’eroe è infatti colui che ci mette in relazione con una dimensione che è oltre il quotidiano esistere. E’ ciò che ci fa convivere, in maniera più o meno conscia, con l’idea che la vita significhi qualcosa in più di un corpo che presto o tardi verrà divorato dai vermi. L’eroismo è l’archetipo che riassume in sé tutta questa pulsione alla vita oltre la vita, che permette però allo stesso tempo di dare significato alla vita quotidiana, di dare senso alle azioni. Ma il comportamento eroico si determina sempre a partire da una qualche verità per cui combattere, verità da affermare o da difendere. Sfumando, progressivamente, ogni possibilità di concepire una “verità dura” in cui credere con forza (Dio, Stato, Ideologia, ecc…), si verifica l’inevitabile vaporizzazione di questo archetipo così importante per la storia dell’uomo e per la struttura della mente umana (senza dimenticare l’enorme portata di violenza che quasi sempre si è accompagnata a esso). Siamo quindi all’interno di un processo di rimozione di un archetipo fondante. Il venir meno dell’eroe è il venir meno di un modo essenziale di essere dell’uomo, di pensare e comprendere se stesso e il mondo. L’eroe è infatti il protagonista assoluto del mito che a sua volta è l’asse portante simbolico della nostra storia.

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La demitizzazione del mondo, il suo de-simbolizzarsi, progressivo e inevitabile con l’evoluzione della coscienza umana e della comprensione razionale del mondo, ci lascia spogli di mediazioni in grado di determinare un legame più soddisfacente e coinvolgente con il mondo che ci faccia pensare oltre noi stessi, intesi come assoluto presente. La coscienza, per dirla con Amleto, e con Freud, “ci fa tutti vili”, ma allo stesso tempo è il motore del miglioramento delle condizioni di vita, del rispetto dell’altro, di un mondo sempre più giusto, meno povero, più pulito, sicuro e funzionale. La pandemia, come ogni evento colossale, è rivelatoria e mostra qualcosa di essenziale del punto in cui siamo nella storia dell’uomo. Ci pone di fronte alla morte e alla sua aumentata possibilità, all’idea che per vivere è necessario un rischio maggiore, oppure, che per ridurre il rischio, è necessario limitare la vita, ovvero la capacità di autodeterminarsi in libertà. La soluzione tecnico-organizzativa non può risolvere, attraverso delle prassi, tutto il significato di un evento.

 

L’idea che Wolfgang Schäuble, presidente del Bundestag, espresse in pieno lockdown (“è assolutamente sbagliato subordinare tutto alla salvaguardia della vita umana”) ad alcuni è apparsa troppo teutonica, ma è proprio su questo che dobbiamo interrogarci, ovvero su cosa siamo disposti a sacrificare per vivere come sentiamo sia giusto vivere. E’ la domanda che, in fin dei conti, per restare su tempi recenti, ci portiamo dietro dall’11 settembre, che è stata la prima esperienza collettiva del tragico e della morte, di possibile guerra in casa, della contemporaneità. Se la vita umana, per necessità della nostra sempre maggiore presa di coscienza del mondo, non è più pensabile all’interno di un orizzonte più ampio e profondo, se non crediamo possibile che esista qualcosa di più significativo della vita in sé, e di più determinante per l’unicità dell’esperienza umana, allora non resta altro che questa vita in sé da salvare, a dispetto di qualsiasi livello di rischio e a tutti i costi.

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