Fedele Confalonieri (foto LaPresse)

“Sì, in effetti stiamo esagerando”

Salvatore Merlo

A Confalonieri la tivù del vaffa non piace affatto. E lo dice

Roma. “In effetti stiamo esagerando”, dice Fedele Confalonieri, il presidente di Mediaset, che ha il pregio della franchezza, anche quando parla di casa sua e delle cose sue. Perché davvero lo zapping dei talk-show sulle reti berlusconiane (ma non solo) si ricompone in un formicolante palcoscenico horror: il giornalista che parla sempre e comunque a nome della gente (anzi, “dalla parte vostra”), quello che caccia il microfono tra i denti del disgraziato che gli è capitato sotto tiro, il collegamento con la piazza vociante, le urla “ladro” “ladro” che l’altra sera su Rete 4 inseguivano Gianfranco Rotondi prima che il deputato, con un gesto di rara dignità personale, si alzasse prendendo cappello. “Stiamo portando i vasi a Samo”, cioè stiamo facendo una cosa inutile, pensa allora Confalonieri, al quale il populismo televisivo piace ancora meno del populismo politico. “Fa un po’ di share, certo”, gonfia gli ascolti tanto più aumenta la dose dell’horror, “ma ‘cui prodest’? A chi giova? A che serve?”. E la questione evidentemente è estetica, culturale, ma anche politica, e non è affatto detto che questi campi semantici non siano complementari.

 

La politica è effetto di scena, diceva Karl Kraus, e la televisione, con tutto il suo apparato di trucchi, luci, telecamere, belletti e finzione, è una macchina potente, plasma una sua verità: “I Cinque stelle potrebbero beneficiare di una egemonia culturale non per meriti propri ma per dabbenaggine altrui, perché altri ne hanno creato le condizioni”, ha scritto Angelo Panebianco, la settimana scorsa, sul Corriere della Sera. E allora Mediaset sta diventando la truculenta televisione di Matteo Salvini e del Movimento cinque stelle? Confalonieri questo non lo pensa, ci mancherebbe, ma dice che c’è un “clima in una parte del paese, un malumore che la televisione intercetta, e che poi a volte, per fortuna non sempre, enfatizza. I nostri conduttori sono bravi, ma in questa logica dell’urlo adesso stiamo esagerando”.

 

C’è una grammatica fuori controllo che ha liberalizzato il ricorso a parole eccessive, per forzare nella direzione dello sdegno emotivo e del rifiuto morale situazioni, luoghi, comportamenti e persone, che non è più lo sberleffo spiritoso di Totò – “a proposito di politica, non è che ci sarebbe qualcosina da mangiare?” – ma è invettiva, compiacimento nell’eccesso, tumulto da curva sud. Allora Confalonieri dice che “anche negli anni Novanta ci accusarono di aver cavalcato Tangentopoli. Ma non era proprio così. Oggi l’Italia è meno allegra che in passato”, e dunque la tivù non inventa, “non ci sono fake news” nei canali Mediaset, “ma talvolta c’è un piano inclinato, un eccesso nel racconto, nella costruzione scenica. Questo non mi piace”. D’altra parte Confalonieri lo sa che gli spettatori diventano elettori. E gli spettatori del vaffa televisivo di chi mai saranno elettori? 

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.