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A Roma la mafia è un bluff. Lezione per i pappagalli delle procure

Claudio Cerasa

Costruire una fortuna sul brand anti mafia prescindendo dalle prove sulla mafia. Gli speculatori e i giornalisti in bikini. Breve catalogo

In quasi quattro anni di inchieste spericolate, tra mazzette spacciate per coppole, strozzini da quattro soldi scambiati per temibili padrini, consiglieri comunali presentati come i nuovi Totò Riina, sfigatissime pompe di benzina trasformate in pericolosi covi dei nuovi picciotti della mafia e interi quartieri di Roma descritti come fossero l’epicentro evidente di una nuova inarrestabile Corleone, l’indagine su Mafia Capitale non ha mai conosciuto alcun tempo diverso rispetto a quello dell’indicativo. Nel linguaggio della cronaca giudiziaria, e non solo, l’indicativo, si sa, esprime “un fatto di validità permanente” e l’utilizzo di questa forma verbale ha una serie di implicazioni importanti sulle nostre coscienze, non ultima quella di certificare che ciò di cui si sta parlando esiste davvero, senza condizionali e senza ombra di dubbio. L’inchiesta su Mafia Capitale, ieri brutalmente ridimensionata da uno splendido giudice che con coraggio ha cancellato con un tratto di penna l’unica ragione per cui l’inchiesta della procura di Roma ha catturato per anni l’attenzione dei giornali di tutto il mondo (la mafia), fin dalle prime ore e fin dai primi arresti è stata descritta dai principali organi di informazione (tranne un piccolo giornale che conoscete bene) senza utilizzare sfumature e senza usare condizionali. Nel caso specifico non si tratta però solo di una clamorosa e ricorrente incapacità di considerare la tesi di una procura come una tesi di parte, che non può cioè essere raccontata come verità assoluta solo perché la voce di un magistrato ha una cassa di risonanza mille volte maggiore rispetto a quella di un avvocato.
In questa circostanza la volontà di dimostrare a tutti i costi che a Roma la mafia esisteva davvero, e la conseguente volontà di tapparsi gli occhi di fronte a tutti i chiari segnali che indicavano che la mafia a Roma non era altro che una ridicola fiction, ha una motivazione che non può essere spiegata solo utilizzando la lente della cronaca giustizialista ma che deve essere messa a fuoco in un altro modo, partendo cioè dalle ragioni, anche culturali, che rendono il bollino “mafia” un brand semplicemente irresistibile, almeno per alcune particolari categorie di speculatori dell’antimafia. Con il brand “mafia” ogni magistrato ha la certezza matematica non solo di poter indagare sui sospettati utilizzando strumenti di indagine invasivi che si possono usare solo quando qualcuno viene accusato sulla base del 416 bis (più tempo per le intercettazioni, meno vincoli sulle perquisizioni) ma anche di poter ricevere per la propria inchiesta una straordinaria copertura mediatica, che gli verrà regolarmente garantita da tutti coloro che hanno la necessità di non far perdere peso a un mostro chiamato professionismo anti mafia (e che ultimamente non se la passa bene).

 

Le inchieste sulla mafia perdono spesso il condizionale perché l’Italia è piena di giornalisti e di politici, e Roma in questo momento è la capitale di questo infame cortocircuito, specializzati nel portare avanti un’operazione chiara e spregiudicata: costruire una fortuna sul brand anti mafia prescindendo dalle prove sulla mafia e trasformando in amici dei mafiosi tutti coloro che tentano di difendere lo stato di diritto facendo una cosa che ai segugi dell’antimafia purtroppo non riesce mai, ovvero pesare in modo laico la solidità delle prove senza trasformare la tesi di un pm in un passo del vangelo. A Roma questo non è avvenuto e in molti se ne sono avvantaggiati. Lo ha fatto chi ha condotto l’inchiesta. Lo ha fatto chi ha raccontato l’inchiesta. Lo ha fatto chi ha trasformato l’inchiesta in un film campione di incassi (è successo), in una serie tv campione di ascolti (è successo), in un bestseller campione di vendite (è successo). Lo ha fatto, ovviamente, chi ha trasformato l’indicativo sulla mafia in una grande battaglia politica (cercate su internet Grillo e “mafia capitale”) grazie alla quale un branco di “mezze pippe” (citazione di Vincenzo De Luca) ha avuto buon gioco a conquistare Roma descrivendo la città per quello che non è (la capitale della mafia) e dimenticandosi di raccontare Roma per quello che invece è (la capitale dell’inefficienza). In virtù di questa grande bolla e balla mediatica, purtroppo alimentata da alcuni magistrati che hanno scelto di utilizzare il bikini della mafia per dare risalto a un’inchiesta sulla corruzione che altrimenti non avrebbe mai avuto l’attenzione che ha ricevuto, per quasi quattro anni tutti i grandi mezzi di informazione si sono rifiutati di cogliere i segnali che mese dopo mese arrivavano dall’indagine su Roma: i capi di imputazione persi per strada (Ostia), le archiviazioni per alcuni indagati importanti (Alemanno), le denunce di Cantone (“mai parlato di mafia a Roma”) e molto altro.

 

E invece nulla. Silence. Nessuno spirito critico. Nessuno che abbia avuto il coraggio di chiedersi come sia stato possibile che, come vittime della violenza e delle minacce del gruppo “mafioso”, in dibattimento, i pm abbiano portato (a) un gioielliere dei Parioli per una storia relativa al pagamento di tre Rolex; (b) un venditore ambulante; (c) un pensionato vessato per tremila euro di interessi usurari; (d) un orafo che doveva fare un affare in Africa finanziato da Carminati e poi sfumato. Le condanne ottenute dalla procura di Roma sono certamente importanti e non possono essere sottovalutate. Ma le condanne arrivate ieri dal tribunale di Roma non sono solo a carico di alcuni delinquenti, che certamente hanno fatto del male alla Capitale d’Italia. Sono condanne in mezzo alle quali si nascondono evidenti bastonate per tutti i pappagalli delle procure che usano il bollino della mafia come fosse un bikini: per farsi notare e conquistare consenso. Oggi tutti dovrebbero essere contenti che la capitale d’Italia non è la capitale della mafia (Virginia Raggi ieri sembrava invece disperata). Ma è lecito sospettare purtroppo che i professionisti dell’anti mafia per nascondere il lutto al braccio (Saviano è già disperato) continueranno a sostenere quello che non si può sostenere: la mafia esiste, diranno, siete voi imbecilli che non la vedete. In conclusione, sarebbe bello poter dire che mafia capitale è stata solo una grande operazione giornalistica ma purtroppo non lo è stato. Abbiamo riletto ieri alcuni passaggi dell’ordinanza di custodia cautelare firmata il 28 novembre 2014 dal giudice Flavia Costantini. L’ordinanza si chiama “mondo di mezzo”, sì, ma nel mondo di mezzo l’espressione “mafia capitale” non è un’invenzione dei giornalisti ma è una espressione scelta dai magistrati, che compare, per l’esattezza, ottantasette volte, addirittura con un ammiccamento già alle prime righe della sentenza: “Mafia Capitale, volendo dare una denominazione all’organizzazione…”. Uno dei pm che hanno lavorato di più a quest’inchiesta, Paolo Ielo, ieri ha riconosciuto che la sentenza dà torto su alcuni aspetti alla procura di Roma ma ha annunciato che probabilmente i magistrati dell’accusa faranno appello. Ci permettiamo di rivolgere un appello sull’appello: lasciate stare la mafia. E provate a pensare per un istante se sia stata una buona idea aver contribuito a trasformare la capitale d’Italia nella capitale della mafia. Il bollino mafioso è un bollino indelebile. Vale per le persone e vale anche per le città.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.