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Il manuale Giavazzi per una primavera politica d'Europa

Alberto Brambilla

Un saggio anti demagogico spiega come dare linfa alle istituzioni europee dopo lo scampato pericolo populista

La fase acuta della crisi economica è alle spalle e i numeri sulla crescita e sulla disoccupazione nell’Eurozona sono positivi, ma l’edificio istituzionale europeo è ancora incompiuto. Servirebbero cambiamenti incisivi, sia di breve sia di lungo periodo, per superare l’eredità della crisi – per alcuni paesi, tra cui l’Italia, ancora molto pesante – e per garantire sostenibilità all’intero progetto politico ed economico. Ma gli inquilini dell’Eurozona sono da tempo a metà del guado, incerti sul proseguire la traversata verso una maggiore integrazione e timorosi di tornare indietro, sulla sponda del sovranismo e del ritorno alle politiche economiche e monetarie nazionali. Negli anni scorsi l’esitazione nel fare passi in avanti insieme agli altri condomini è cresciuta di pari passo con l’esplosione dei partiti populisti e sovranisti. Ma dopo un 2016 in cui il successo dei populismi sembrava inarrestabile – dal referendum sulla Brexit all’elezione di Donald Trump – il 2017 è un anno di svolta e di riscossa anti populista, sancita dalla vittoria di Mark Rutte in Olanda, Emmanuel Macron in Francia e molto probabilmente di Angela Merkel in Germania tra qualche mese. Questi paesi, guidati da governi convintamente europeisti, hanno deciso di attraversare il fiume. L’Italia, che arriva per ultima in questo ciclo elettorale europeo, è l’unico paese tenuto fermo dall’incertezza politica, all’inizio di una campagna elettorale che molto probabilmente – come dimostra già una parte del dibattito pubblico – sarà tutto rivolto all’indietro: euro sì o euro no, tornare indietro o restare fermi. Non si sa ancora quando il paese andrà alle urne e se ci saranno elezioni anticipate, ma dopo le elezioni tedesche Angela Merkel (o chi per essa come cancelliere) e Macron, insieme agli altri governi dell’Unione, si siederanno attorno al tavolo per progettare la ristrutturazione della casa europea. E a quel tavolo sarebbe preferibile che ci fosse anche l’Italia, con un governo a vocazione europeista, capace di incidere nel progetto di riforma.

 

Cosa dice lo studio del Centre for economic policy research con i contributi e le proposte di alcuni affermati economisti a favore di riforme che possano rendere sostenibile l'Eurozona. Dalle politiche del lavoro al completamento dell'unione bancaria, dall'unione fiscale agli investimenti pubblici

Due fattori hanno contribuito maggiormente al risveglio del patriottismo europeo. Il primo è l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea – alleato marittimo spesso nemico dello sviluppo di una coscienza europea – che ha motivato un senso di rivalsa e di indipendenza nelle cancellerie dell’Europa continentale, in particolare in Francia e in Germania. Nel gestire la Brexit l’Europa dovrebbe agire con fair-play se il favore è ricambiato – commetterebbe un grave errore se si opponesse in modo intransigente al Regno Unito o se perseguisse apertamente fini anti inglesi –, ma adesso può cercare la sua strada. Il secondo fattore è lo scampato pericolo dell’ascesa dei partiti sovranisti-populisti che ha motivato un senso di urgenza nelle élite europee affinché attuino nei prossimi anni riforme a lungo discusse e altrettanto a lungo rimandate per via di obiettivi nazionali in conflitto; problema antico quanto la questione europea e dunque non più rinviabile, Hic Rhodus, hic salta. Paradossalmente i partiti e i movimenti che avrebbero potuto distruggere l’Europa, poi arenatisi alle urne, le hanno invece dato nuova linfa e al contempo hanno indirettamente suggerito all’establishment un nuovo approccio sulle prossime tappe dell’integrazione, ovvero un atteggiamento più trasparente verso i cittadini da tradurre in azioni concrete. Nelle scorse settimane dalla Commissione europea alla Banca centrale europea, passando per alti funzionari comunitari e da alcuni capi di governo si sono susseguiti appelli a un patriottismo paneuropeo da portare avanti con una visione di lungo periodo attraverso riforme delle istituzioni comunitarie affinché siano legittimate democraticamente – quindi non imposte dall’alto – e siano percepite come promotrici di prosperità e inclusione – e non di diseguaglianze.

 

Una buona base per capire quali sono i nuovi pilastri da rafforzare nell’edificio europeo è l’ebook appena pubblicato dal Cepr (Centre for economic policy research) e curato da Agnès Bénassy-Quéré e Francesco Giavazzi dal titolo “Europe’s political spring – fixing the Eurozone and beyond”. La primavera politica è proprio quella che ha portato al trionfo di Emmanuel Macron in Francia sulla base di un’agenda europeista e di riforma delle istituzioni comunitarie verso una maggiore integrazione. Sull’apertura di questa finestra politica, il libro riporta i contributi e le proposte – non sempre univoche e concordanti – di alcuni affermati economisti a favore di riforme che possano rendere sostenibile l’Eurozona, dalle politiche del lavoro al completamento dell’unione bancaria, dall’unione fiscale agli investimenti pubblici. Maggiore integrazione in cambio di ulteriore cessione di sovranità, minimizzazione dei rischi sistemici attraverso maggiore responsabilizzazione e condivisione dei rischi.

 

L’Eurozona è cresciuta dell’1,7 per cento nel 2016, una percentuale non soddisfacente se paragonata al decennio precedente caratterizzato da una crescita anemica, una disoccupazione testardamente alta (soprattutto tra i giovani) e una faticosa uscita da una crisi bancaria che ha puntellato tutti i paesi membri limitando la capacità di elargire credito alle piccole e medie imprese che ovunque nel continente sono la spina dorsale dell’economia. Thorsten Beck, economista alla Cass Business School, dice che nuovi attori sulla scena politica come Macron e vecchie certezze come Merkel potrebbero riuscire a evitare che anche la prossima decade non sia perduta. Secondo Beck il problema principale è fare in modo che l’Eurozona sia sinonimo di prosperità e che sia sostenibile negli anni a venire lavorando sulle criticità che non implicano una modifica dei trattati che al momento non è in seria discussione. “Se i leader europei vogliono evitare un altro decennio perduto, questo è il momento di agire. Un settore bancario in salute è critico per il revival dell’Eurozona”. Secondo Beck è necessario creare una società europea di gestione dei crediti deteriorati che toccano la cifra complessiva di 1.000 miliardi di euro nelle 130 banche principali della zona euro. Secondo l’economista la soluzione del problema non può essere demandata alla volontà e agli sforzi degli stati membri ma deve essere comune, in cui sia gli stati debitori sia quelli creditori si assumono i rischi e i privilegi derivanti dalla creazione di una società europea che smaltisca le sofferenze nei bilanci bancari della zona euro. Secondo Beck questo sarebbe un passo reale ma anche simbolico per la costruzione di una identità europea: “La crescente riluttanza a intraprendere decisioni toste è andata di pari passo con il populismo nell’Eurozona”.

 

L’euroscetticismo tuttavia non ha prevalso né alle urne, come si sa, né nella mentalità dei cittadini dei paesi membri dell’Eurozona (vedi grafico in pagina). Come sostiene Paul de Grauwe (London School of Economics) è però necessario “assicurare che l’Eurozona diventi una fonte di crescita economica e che, in secondo luogo, la sua sopravvivenza nel lungo periodo sia garantita”. De Grauwe parte dall’assunto che il settore privato abbia una sostanziale avversione al rischio e non sia quindi capace di investire abbastanza, ergo “sono necessari capitali pubblici per raggiungere obiettivi di crescita sostenibile nel lungo termine”. Da un lato, De Grauwe invoca un rilassamento dei vincoli al budget degli stati se la maggiore spesa è indirizzata verso investimenti pubblici e dall’altro suggerisce ai paesi che non hanno limitate capacità di indebitarsi – come Germania, Francia, Olanda, Belgio, Finlandia, ovvero i non-periferici – di spendere in progetti con alti ritorni dal momento che sono capaci di ricevere denaro a prestito a tassi molto bassi.

 

L’obiettivo più difficile da raggiungere è l’unione fiscale, che secondo Guido Tabellini (economista della Bocconi) potrebbe funzionare come stabilizzatore in caso di crisi sistemiche bancarie o del debito sovrano: “Un’importante lezione della crisi finanziaria – dice Tabellini – è che, quando arriva, la politica monetaria dovrebbe essere coordinata con la politica fiscale per sostenere la domanda aggregata”. Un’unione fiscale vuol dire un budget europeo, che dovrebbe essere finanziato con risorse nazionali (una frazione dell’Iva), e una nuova istituzione – creata sul modello della Bce – con il compito di gestire la politica fiscale e con maggiori poteri di supervisione sui bilanci nazionali. In cambio di uno stabilizzatore in caso di crisi, gli stati dovrebbero accettare una maggiore intrusione e un maggiore controllo sulle politiche nazionali. Lo stesso Tabellini ammette che un progetto del genere è difficile da attuare in una situazione in cui c’è ancora molta diffidenza tra i partner europei. Il sacrificio di una parte della base fiscale per finanziare un bilancio europeo che sussidierebbe i paesi più deboli non è digeribile per i paesi più forti e i maggiori limiti e controlli sui bilanci sono visti dai paesi più fragili come una inaccettabile cessione di sovranità a favore dei paesi più solidi. Inoltre per una riforma del genere, come scrive Tabellini, ci sarebbe bisogno di una riscrittura dei Trattati e di riforme costituzionali negli stati membri, un progetto che difficilmente sarebbe realizzabile nel breve termine ma che resta un orizzonte raggiungibile in un futuro non troppo remoto. 

 

Ciò che invece si potrebbe fare in tempi più stretti è il completamento dell’unione bancaria. Anche se il miglioramento delle condizioni economiche dell’Eurozona mostra che le banche non sono più sull’orlo del precipizio, non pare neppure che il sistema sia capace di resistere a futuri choc. C’è un generale consenso sul pezzo mancante per completare l’unione bancaria.

 

Dopo il Meccanismo di vigilanza sulle banche più grandi e al Meccanismo di risoluzione per le banche in dissesto, serve un terzo pilastro: un sistema europeo di assicurazione sui depositi. Tutti sono d’accordo, ma qual è il problema? Come spiega Daniel Gros, economista del Centre for european policy studies, è l’incompatibilità di una garanzia comune sui depositi con la pratica delle banche di possedere una grande quantità di titoli di stato del proprio paese: “Un’insolvenza dello stato farebbe fallire le banche e i costi verrebbero sopportati dall’intera Eurozona”. Come per altre questioni, il problema è politico ed è alimentato dalla diffidenza tra centro e periferia. La Germania ad esempio pretende che la mutualizzazione del rischio attraverso una garanzia sui depositi proceda in maniera parallela con una riduzione del rischio, cioè con limiti stretti alla concentrazione di titoli di stato in pancia delle banche. L’Italia invece teme che, riducendo la possibilità delle banche di fare incetta di bot, si alzi troppo il costo del debito. La Francia è stata finora a metà del guado ma, come sottolinea Gros, importanti economisti tra cui il consigliere di Macron Pisani-Ferry si sono espressi favorevolmente rispetto allo scambio tra garanzia comune sui depositi e limitazione alla conentrazione di bond sovrani nelle banche: “E’ un compromesso politico che ha senso”, scrive Gros, ed ora anche maggiori possibilità di realizzare un’Unione bancaria su queste basi per “il nuovo ambiente politico nato dalla sconfitta dei populisti in Francia”. Il progetto può subire un’accelerata nei prossimi mesi sulla base di un’intesa franco-tedesca e anche per questo sarebbe preferibile che l’Italia abbia un governo credibile per avere voce in capitolo.

 

Agnès Bénassy-Quéré (Paris School of Economics) suggerisce la creazione di una “Jobs Union” – ovvero una unione degli impieghi lavorativi e delle opportunità di carriera. Il primo pilastro è la convergenza dei principi comuni – tra paesi – uso limitato di contratti precari e temporanei, protezione minima dei lavoratori, salario minimo. Il secondo è il riconoscimento de i diplomi tra paesi, possibilmente con una etichetta europea, e la possibilità di vedere propri diritti riconosciuti ovunque. Il terzo pilastro è lo sviluppo di un fondo sociale (European Social Fund) per chi sta cercando lavoro.

 

Dopo l’economia, anche l’Europa politica si è dunque rimessa in moto, sperando che faccia tesoro degli errori passati che hanno prodotto ritardi di molti anni nell’avanzamento del progetto di un’Europa unita.

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.