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Una fogliata di libri

Su "La Storia" aveva ragione Pier Paolo Pasolini

Matteo Marchesini

Nella tarda primavera del 1974 usciva il libro di Elsa Morante, al quale seguì un lungo e rumoroso dibattito che coinvolse diversi temi culturali dell'epoca. Una discussione in cui il celebre intellettuale ebbe un ruolo importante

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Mezzo secolo fa, nella tarda primavera del 1974, usciva da Einaudi “La Storia” di Elsa Morante. Seguì un lungo, rumoroso dibattito, che coinvolse i temi più diversi: l’industria culturale, il senso del romanzo in un’epoca che lo dava per morto, le categorie di rivolta e di rassegnazione. Come vide Pasolini, “La Storia” contiene alcune delle pagine più belle e alcune delle pagine più brutte dell’opera morantiana. La scrittrice incede con sicurezza regale quando riepiloga vite già concluse o racconta le agonie. Quando invece prova a descrivere gli sviluppi dell’esistenza “in presa diretta”, componendo dialoghi che si sforzano di diventare fumetti, rende tutto volontaristico, declamato, legnoso. È come se la vita attiva fosse ormai impossibile, irreale. Sotto lo scandalo millenario della Storia maiuscola (le battaglie, gli sterminii), la vera storia è qui quella degli esseri che non sanno capitalizzare il potere sociale: maestre impaurite, cassandre mentecatte, prostitute pronte al sacrificio, bambini epilettici, animali. Risaltano, è vero, i violenti: ma sono dei ragazzi che dilapidano sé stessi, degli Achille o degli Amleto che un attimo dopo avere sopraffatto una femmina si addormentano aggrappati al cuscino come cuccioli.
 

Gli esseri che Morante ama o corteggia vivono da sonnambuli, in un sogno incerto speculare a quello che i dittatori proiettano atrocemente sul mondo. Perfino Ida, che in qualità d’insegnante trasmette il linguaggio falso del potere, non ne è toccata: la retorica le scorre addosso simile a un flusso alieno, come al suo stupratore Gunther scorrono davanti agli occhi gli edifici piccolo-borghesi che lui non distingue dalle rovine romane. Non c’è differenza, per questa gente, tra guerre mondiali e puniche. Dagli inermi, la Storia monumentale viene scontata a un tempo con “una ignoranza infinita” e “una consapevolezza totale”. Domina l’idea orientaleggiante secondo cui tutto, anche le stragi, è uno scherzo. Ma Morante non riesce a portarla fino in fondo. Spesso, infatti, la riduce a un tipico procedimento decadente: quello di descrivere l’orrore con soavità “poetica”. Il fatto è che quell’Oriente può diventare fede o azione, ma non letteratura moderna, se non facendosi ideologia dell’estetismo. E’ l’equivoco per cui Useppe, anziché come un personaggio, parla come un mitico profeta di saggezza, o se si vuole come un Alioscia al quale il Novecento non concede l’età adulta (se muore senza crescere è perché la sua fiaba è incompatibile con il romanzo, come per motivi opposti lo è l’intellettualismo di Davide Segre). Il vagheggiamento di un’aristocrazia dei paria ha il suo riflesso stilistico nel tic dei vezzeggiativi. Morante è ipnotizzata dal suo desiderio di mostrare che le cose più naturali o dozzinali sono meravigliose e innocenti. Luigi Baldacci evocò a questo proposito un poeta che lei detestava: Giovanni Pascoli, il quale pure credeva che il mondo potesse essere salvato dai ragazzini.
 

Negli annali della “Storia”, le figure principali non muoiono in guerra ma dopo, stroncate da un incidente o minate da un morbo indistinguibile dal fato. Pasolini, che loda la rappresentazione di queste morti, non apprezza invece quelle, spesso belliche, dei personaggi minori di cui si delineano le biografie in poche pagine. Cosa c’interessa di gente che non conosciamo?, obietta. Eppure quelle brevi “vite” sono altrettanto compiute: anzi, lì dove i protagonisti risultano più improbabili, nella parte centrale del romanzo, artisticamente verissimi ci appaiono i quasi anonimi caduti di cui i famigliari mai apprenderanno il destino. Infine, stupendo è il modo nel quale l’ebrea Morante evoca l’ebraismo di Ida come un’eredità vaga, orecchiata. È, questa, una storia molto italiana: la storia di un’inconsapevolezza che oggi riaffiora nel sonnambulismo sinistro della nostra opinione pubblica

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