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UNA FOGLIATA DI LIBRI

Il mare come dimensione metafisica dell’avventura

Massimo Morello

“Uomini e Pesci” di Gianni Roghi, pubblicato nel 1955 da Sperling & Kupfer, è un manuale di caccia subacquea. Il sentirsi a proprio agio nell’acqua vuol dire molto di più del "non averne paura": il non temere l’acqua è sempre una vittoria su uno stato negativo

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"La Bibbia”. E’ scritto con un pennarello color oro sulla costa della copertina in tela blu che rilega un piccolo libro. In quanto tale, piccolo, certo non può essere la bibbia canonica. Ma lo è stato per qualcuno. Una bibbia metaforica. Il suo vero titolo è “Uomini e Pesci”, sottotitolo “caccia subacquea”, pubblicato nel 1955 da Sperling & Kupfer. L’autore è Gianni Roghi, giornalista, fotografo, scrittore, campione di caccia subacquea, alpinista, morto nel 1967 travolto da un elefante che stava filmando.

La mia vecchia copia con l’originale copertina gialla è dispersa nel mare delle mie vicende, ma il libro l’ho ritrovato in quella iperbancarella del bouquiniste globale che è Amazon. M’era venuto in mente perché, per una serie di coincidenze non casuali, la pandemia mi aveva riportato in mare e volevo riscoprire le radici della mia acquaticità. Il termine è stato inventato proprio da Roghi: “L’acquaticità è un’attitudine, una condizione, una mentalità… La virtù di trovarsi a proprio agio nell’elemento acqua e di sapersi valere con vantaggio delle proprietà fisiche che esso ci presenta... Il sentirsi a proprio agio nell’elemento acqua vuol dire molto di più del ‘non averne paura’: il non temere l’acqua è sempre una vittoria su uno stato negativo; ma noi, del nostro essere in acqua, vogliamo avere un concetto positivo. Non solo non la temiamo, ma ci stiamo meglio”. 

Il libro di Roghi oggi sarebbe messo all’indice da una cultura imprigionata nei mille “lacci e lacciuoli” del culturalmente corretto. Il suo peccato più evidente è che si tratta di un manuale di caccia subacquea. Ma è proprio per l’argomento, ormai blasfemo, che ci si rende conto di quanto abbiamo perduto abiurando alla nostra eredità genetica di nomadi cacciatori. Sfogliare quel libro, sì quella Bibbia, dove uomini e pesci sembrano protagonisti e antagonisti di un romanzo picaresco, ti fa rendere conto di quanto profondo fosse il rapporto tra cacciatore e preda, di quanta empatia il cacciatore dovesse manifestare nel comprendere la preda. Basta leggere le descrizioni dei comportamenti dei pesci: la cernia che dapprima “si fa bella” davanti al cacciatore, poi lo irride e infine “corre fulminea ai ripari” o il branzino che “è di umore estremamente variabile o diciamo pure lunatico” o il polpo, di cui, decenni prima che fosse celebrato per la sua intelligenza, Roghi enumera le “sue mille attività o capacità”, e poi i saraghi “petulanti e indaffarati” o la sogliola con la sua “certa e peculiare impertinenza”.

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Sfogliare e rileggere questo libro mi ha fatto rivivere la curiosità dell’adolescente che lo aveva scoperto, quando il mare cominciava a essere il suo orizzonte mentale e lo scenario dei suoi sogni d’avventura. “Qui si sta parlando del mare, capite? Del mare come dimensione metafisica dell’avventura, uso la parola avventura nel suo senso più alto, e insieme nel più basso, che sono poi lo stesso, insomma ci vorrà un grande senso della natura e della sua energia e del suo arcano, e un altrettanto grande senso della coscienza e dell’incoscienza”. Così ho trovato scritto nel racconto di Michele Mari “Otto scrittori” (nella raccolta “Tu, sanguinosa infanzia”, Einaudi). Me l’ha segnalato un fraterno amico. “Sembra scritto per te”, mi ha detto. Curiosa e propizia coincidenza perché si è verificata proprio mentre stavo cominciando la mia personalissima recherche di vecchi libri. E così la “Bibbia” di Roghi mi fa da guida su nuove rotte. Come scrive Mari “Non si dava navigazione che non fosse incominciata in un libro già letto e che non proseguisse in un libro da leggere”.

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