E’ in libreria, di Andrea Tarabbia, “Il continente bianco” (Bollati Boringhieri, 241 pp., 16 euro). Grafica di Giovanni Battistuzzi 

Una fogliata di libri

Inseguendo il male da cui si è oscenamente attratti

Marco Archetti

Andrea Tarabbia è un capitano Achab che con pervicacia insegue una balena, quella del male. “Il continente bianco” è un romanzo che discende da “L’odore del sangue”, grande incompiuto di Goffredo Parise, e che dà, al fascista di cui si innamora Silvia, un nome e una vita

Ci sono scrittori e scrittori. Già, ma che vuol dire? Quali sono le grandi discriminanti, gli essenziali spartiacque? Uno, per esempio: scrittori di un solo romanzo vs scrittori di tanti romanzi. Il che non vuol dire né che gli scrittori di un solo romanzo ne abbiano scritto effettivamente solo uno o che siano inferiori agli scrittori di tanti romanzi, anzi, a parere di chi scrive, i più invidiabili sono proprio quelli del primo tipo: gli scrittori, cioè, che hanno un mondo dai contorni precisi, un oggetto riconoscibile e perfettamente a fuoco nel mirino, che diventa epicentro di tutta la loro filosofia narrativa. Questi scrittori vestono sempre la stessa domanda di abiti nuovi, con ostinazione estetica, incarnando l’ossessione di Achab per la balena. Certo, gli scrittori del secondo tipo potrebbero essere – forse – più sorprendenti o avere – apparentemente – più frecce al proprio arco, o incantare il lettore – ah, l’affezionato lettore, questo rinoceronte di Giava… – con la più gioiosa molteplicità.

   

Andrea Tarabbia, invece, è un capitano Achab che con pervicacia insegue una balena, quella del male, il male che si fa e da cui si è misteriosamente e oscenamente attratti, e oscenamente Tarabbia ne scrive perché così deve essere, fino a sprofondare, con le sue ricerche e col suo racconto (che è sempre un racconto interrogativo, mai esclamativo, vivaddio) nei sottosuoli e nei fondali, ma soprattutto in quelle stive in cui, chi è uno scrittore – sorvegliandolo o no, frequentandolo o meno, percependolo chissà – nasconde il malloppo delle proprie istanze segrete: non solo il male, dunque, ma tutte le reazioni chimiche che il male innesca, compresa la domanda circa la sua raccontabilità, la sue esplorabilità, la sua praticabilità in relazione alla morale e alla morale della scrittura. 

 

Il continente bianco” (Bollati Boringhieri,  241 pp., 16 euro) è un romanzo che discende da “L’odore del sangue”, grande incompiuto di Goffredo Parise, e che dà, al fascista di cui si innamora Silvia, un nome (Marcello Croce) e una vita (da leader del Continente bianco, associazione romana di confusi rivoluzionari di estrema destra, idolatri di Mishima e di Breivik). Tra pagine che si rifanno a Malaparte e a Dostoesvkij – non si tratta di canticchiare cover, ma di rimodulare dei significati –, tra pagine in cui risuona anche l’eco della curatela di una bellissima antologia sui demoni russi uscita per Il Saggiatore, inventandosi un bellissimo capitolo in cui, guardando un nugolo di disperati sotto un ponte esplode la cruciale domanda sulla libido distruttiva o solidale, Tarabbia racconta anche un Tarabbia (l’io che dice io nel romanzo) mentre racconta, e mentre cerca ciò che cerca chiunque prenda sul serio il problema di raccontare – il Tarabbia del romanzo è addirittura “incaricato” di farlo – dando forma a ciò che ne vuole una proprio mentre la sostanza – il sangue e il suo odore, l’odore di morte e di massacro – travolge i sensi e, a quel punto, anche il senso.

 

“Mentre proseguo il resoconto dei miei mesi romani”, scrive Tarabbia, “mi succede a volte di sentirmi invaso da una mollezza, un’assenza di controllo, e di lasciar riaffiorare certi fatti che sono venuto qui per dimenticare”. Intanto là fuori c’è una guerra. Intanto brucia tutto. E noi sentiamo il calore di quel fuoco e l’odore di quel sangue, e la loro primitività carnale e la loro irriducibilità tragica, perché non c’è mai un odio che non sia definitivo, mai una purezza che non sia brutale.

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