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una fogliata di libri

Lavagetto e Orlando: come ti uso la lente di Freud

Matteo Marchesini

Uno era il Maigret, l'altro il Poirot della critica letteraria: non la mediazione tra opera e pubblico, ma tra un testo e ciò che il testo non è

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Un mese fa è morto Mario Lavagetto, e gli estensori dei coccodrilli sono tornati a interrogarsi sul destino malinconico degli studi letterari. Poco tempo prima, la stessa domanda si era insinuata tra gli omaggi tributati a Francesco Orlando nel decennale della scomparsa. Questi due elegantissimi interpreti della letteratura si accostavano ai testi con la lente di Freud. Ma la usavano in modo diverso. “Sarebbe bravo, peccato non si sia fatto psicoanalizzare”, pare dicesse Orlando di Lavagetto. “Sarebbe bravo, peccato si sia fatto psicoanalizzare”, pare dicesse Lavagetto di Orlando.

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Un mese fa è morto Mario Lavagetto, e gli estensori dei coccodrilli sono tornati a interrogarsi sul destino malinconico degli studi letterari. Poco tempo prima, la stessa domanda si era insinuata tra gli omaggi tributati a Francesco Orlando nel decennale della scomparsa. Questi due elegantissimi interpreti della letteratura si accostavano ai testi con la lente di Freud. Ma la usavano in modo diverso. “Sarebbe bravo, peccato non si sia fatto psicoanalizzare”, pare dicesse Orlando di Lavagetto. “Sarebbe bravo, peccato si sia fatto psicoanalizzare”, pare dicesse Lavagetto di Orlando.

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Orlando tendeva cartesianamente al sistema; Lavagetto invece lavorava a strati, come chi mette lentamente insieme una serie di indizi: uno era il Poirot, l’altro il Maigret del metodo freudiano. Ma in realtà anche sulle indagini lavagettiane aleggia il fantasma della teoria. Approfondendo le analisi di Giacomo Debenedetti su Saba, Svevo e Proust, Lavagetto formalizzò gli spunti psicanalitici che nel discorso “a ruota libera” del suo maestro erano solo un elemento suggestivo tra tanti. Allievi di due virtuosi della critica come conversazione, Tomasi di Lampedusa e appunto Debenedetti, Orlando e Lavagetto salirono in cattedra mentre la critica iniziava a fingersi scientifica; e di questa ideologia rappresentarono il volto più umano.

 

In un pamphlet del 2005, “Eutanasia della critica”, Lavagetto ha denunciato gli esiti pseudoscientifici di molta produzione tardonovecentesca, dagli schemi strutturalisti ai pastiche arlecchineschi dei cultural studies; ma lo ha fatto cercando di buttare l’acqua sporca dello “pseudo” e di salvare l’embrione della “scienza” contro le sirene dell’immediatezza. L’invito di George Steiner a disfarsi dei commenti per recuperare un approccio diretto con i capolavori nasconde a suo parere una distopia, perché la morte dell’interpretazione implica la morte dell’opera interpretata. La tesi sembrerebbe condivisibile, se Lavagetto non vedesse a propria volta nella critica l’attività mediatrice di un corpo di specialisti. In questo caso, infatti, sarebbe davvero “secondaria” o parassitaria, come i riti delle caste sacerdotali che pretendono di avere il monopolio su alcune pratiche universalmente umane, alla portata di chiunque sia sufficientemente dotato e disposto a sviluppare una certa consapevolezza.

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Ma le cose non stanno così. La funzione della critica non è quella di mediare tra un’opera e un pubblico, bensì tra zone differenti dell’esperienza, ovvero tra un testo e ciò che il testo non è: “svolgere il discorso critico vuol dire (…) parlare di tutto a proposito di una concreta e determinata occasione. Il critico allora è esattamente il diverso dallo specialista (…) è la voce del senso comune” scriveva Fortini nel 1960, al montare dell’onda scientista. Il problema è che Lavagetto non distingue la critica dallo studio specialistico. La differenza, s’intende, va vista come una serie di gradazioni su uno spettro; ma è decisiva. Studioso ideale è colui che può permettersi di dare per presupposto il ruolo di un autore o di uno stile all’interno di una cultura che si limita a ereditare, perché assegna a sé stesso il compito di analizzare i caratteri di quell’autore e di quello stile su quello sfondo dato.

 

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Critico ideale, invece, è colui che rimette tutto radicalmente in discussione: prospettiva, linguaggio, rapporto tra sé e l’opera, tra l’opera e il canone, tra il presente e il passato. Nella critica è cruciale il senso della posizione: argomentazioni e sensibilità devono comporre una visione del mondo. Anche l’autentico critico, non meno del narratore e del poeta, ripulisce i suoi oggetti dagli stereotipi e ci li mostra come se li vedessimo per la prima volta. Il che equivale a dire che è uno scrittore. E alla fine di “Eutanasia” Lavagetto arriva quasi ad ammetterlo, seppure attraverso una citazione di Debenedetti. Il maestro vi evoca la memoria involontaria di Proust per parlare del rintocco avvertito dal critico quando è sulla strada giusta. Questo rintocco, dice, “si sprigiona (…) dalle oscure officine del destino”: dunque la critica, come il resto della letteratura, è inscindibile da un’esperienza e da un sapere che hanno i confini incerti della vita, e perciò non sopporta gli a priori metodologici.

 

Le contraddizioni del pamphlet rispecchiano quelle del suo autore. Come Orlando, Lavagetto oscilla tra vocazione critica e coazione allo studio, inseguendo la legittimazione dell’abito professionistico. Ne risulta un compromesso da nevrosi che spiega bene l’“eutanasia”: il Super-Io accademico, e la spinta alla “civilizzazione” delle humanities, sono diventati così aggressivi da scatenare l’impulso di morte che volevano combattere, e da distruggere l’impulso erotico senza il quale nessuna critica integra può sopravvivere.

 

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