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una fogliata di libri

Il mondo senza salvezza di Grazia Deledda

Giulia Ciarapica

Unica donna italiana Nobel per la Letteratura, eppure ignorata dal grande pubblico: è forse la verità non verista a intimorire e allontanare dalla Sardegna dell'autrice?

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"Tutte stupidaggini”, nient’altro che stupidaggini, così rispondeva Grazia Deledda a quanti le chiedessero “cosa stai scrivendo?”: “Stupidaggini”, appunto, come si trattasse di qualcosa di poco o nessun conto. Eppure lei, che quando vinse il Nobel fu descritta dalla stampa estera come una “donna dimessa, madre e casalinga poco sorridente”, in realtà modesta non lo era affatto, perfettamente cosciente della vocazione letteraria, delle possibilità che prendevano forma dal genio fantastico, romanzesco, accompagnato da una scrittura piena di “sgrammaticature”, certo, ma che non poteva fare a meno di rispecchiare una lingua che non è l’italiano ma “sa limba”, il sardo.

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"Tutte stupidaggini”, nient’altro che stupidaggini, così rispondeva Grazia Deledda a quanti le chiedessero “cosa stai scrivendo?”: “Stupidaggini”, appunto, come si trattasse di qualcosa di poco o nessun conto. Eppure lei, che quando vinse il Nobel fu descritta dalla stampa estera come una “donna dimessa, madre e casalinga poco sorridente”, in realtà modesta non lo era affatto, perfettamente cosciente della vocazione letteraria, delle possibilità che prendevano forma dal genio fantastico, romanzesco, accompagnato da una scrittura piena di “sgrammaticature”, certo, ma che non poteva fare a meno di rispecchiare una lingua che non è l’italiano ma “sa limba”, il sardo.

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Sono nata in Sardegna, la mia famiglia, composta di gente savia ma anche di violenti e artisti primitivi, aveva autorità e biblioteca”: Grazia Deledda apre così il suo discorso durante l’assegnazione del Nobel, anteponendo la sarditudine a qualsiasi altra cosa perché, giustamente, non potrebbe esserci punto di partenza migliore per capire la Letteratura della Deledda se non quello di tracciare un percorso etnologico e geografico, dunque antropologico, all’interno dei suoi romanzi: Deledda è Sardegna, e Sardegna diventa materia letteraria in senso stretto.

 

Ce lo spiega perfettamente nel suo volume “In Sardegna con Grazia Deledda” (Giulio Perrone Editore) Rossana Dedola, che non si è risparmiata e in Sardegna ci ha portato davvero, partendo in pieno inverno dall’alto del monte Ortobene, il punto esatto da cui Deledda vide per la prima volta il mare, fino a inoltrarsi nei viottoli, nelle discese e nelle salite dei paesi raccontati dalla scrittrice nuorese nei suoi romanzi e racconti. Ma perché questo viaggio in Sardegna è così prezioso per i lettori di Deledda? Perché, appunto, Deledda è Sardegna, senza sconti e senza inganni; anzi, dirò di più: sembra esser toccata la medesima infausta sorte tanto all’autrice quanto alla sua isola, che all’inizio del Novecento era considerata da molti ancora semisconosciuta. “Possibile che dopo la preistoria la Sardegna sia sprofondata nel nulla?”, si chiede giustamente Dedola, “di quel passato grandioso non c’è traccia nei libri di storia italiani” ed effettivamente è così, proprio come accade a Grazia Deledda, la seconda in ordine temporale e l’unica italiana donna ad aver vinto il Premio Nobel per la Letteratura.

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Com’è possibile, mi chiedo anch’io, che la Deledda, oggi, fatti salvi “Canne al vento”, “Elias Portolu” e “Marianna Sirca”, venga ricordata e stampata solo da piccole case editrici mentre il grande pubblico continua a ignorarne il talento? Proviamo a rispondere partendo dai suoi libri, che sono anche i suoi luoghi – perlopiù solitari e petrosi: in “Colombi e sparvieri” troviamo la cittadina di Orune (ribattezzata dall’autrice Oronou), un paese sospeso tra cielo e terra, in cui “le case sembrano costruite per reggere al confronto tra queste due dimensioni”. In questo romanzo, tra i suoi più belli, a troneggiare è il tema infausto della vendetta, e poi il motivo incombente dell’ingiustizia, che pure si ripresenta nel romanzo “La giustizia”, uno degli scritti del primo periodo, risalente al 1899, ambientato fra le campagne di Orune e Orotelli. Anche in questo caso abbiamo un delitto e un accusato, che però non è il vero mandante, e anche in questo caso è l’odio represso e ingoiato malamente a tratteggiare un filo conduttore dei romanzi deleddiani: l’impossibilità di salvarsi, esattamente come accade ne “La madre”, ambientato a Lollove (ribattezzato Aar dall’autrice), ove non il senso del peccato ma il singolo peccatore – il prete che s’innamora di una donna, ricambiato – porta a galla la disperazione umana e carnale che affligge tanto lui quanto la madre di lui, dilaniata dall’amore per il figlio e dalla consapevolezza del suo stesso destino.

 

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L’ha detto Massimo Onofri e a noi non resta che ribadirlo: nel mondo di Deledda non c’è salvezza, in nessun senso, così come non c’è scampo nei luoghi che abitano le sue storie e che dalle sue storie sono abitati: asfittici eppure inevitabili, essenziali e immarcescibili, lo sono tanto le vie, le case, le chiese, i monti descritti, quanto i temi narrati e sviscerati – la morte, la passione, il connubio indissolubile tra sacro e profano. E’ forse questo che intimorisce e allontana da Grazia Deledda? E’ forse la sua verità non verista, la sua realtà fatta e finita, è forse il potere venefico e intramontabile delle sue parole a renderla così autentica, imponente, e per questo pericolosa?

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