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Una fogliata di libri

La letteratura alle prese con stile e tecnica

Matteo Marchesini

Gli stratagemmi formali assumono una funzione precisa in alcuni grandi libri costruiti in modi tra loro incompatibili. Mostrare questo agli aspiranti autori vale più di fornire loro un elenco di regole. Un pamplhet 

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I pensatori moderni ci hanno insegnato a sospettare di ciò che si presenta come pura tecnica, e a scoprire sotto la pretesa neutralità l’ideologia. Curiosamente ma non troppo, chi a sinistra è pronto a demistificare l’apparenza ineluttabile dei processi economici, si rivela cieco appena si tratta di cultura; e chi è antiamericano in politica, in letteratura si trasforma in una parodia yankee. Si dà ormai per scontato che tutta la storia letteraria sia misurabile con le categorie divenute egemoni negli anni 80 e 90, quando la discussione critica è stata sostituita dagli editor e dalle scuole di scrittura, dove oggi s’impartiscono ordini bruschi col tono del tarantiniano Mr. Wolf o del sergente di “Full metal jacket”.

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I pensatori moderni ci hanno insegnato a sospettare di ciò che si presenta come pura tecnica, e a scoprire sotto la pretesa neutralità l’ideologia. Curiosamente ma non troppo, chi a sinistra è pronto a demistificare l’apparenza ineluttabile dei processi economici, si rivela cieco appena si tratta di cultura; e chi è antiamericano in politica, in letteratura si trasforma in una parodia yankee. Si dà ormai per scontato che tutta la storia letteraria sia misurabile con le categorie divenute egemoni negli anni 80 e 90, quando la discussione critica è stata sostituita dagli editor e dalle scuole di scrittura, dove oggi s’impartiscono ordini bruschi col tono del tarantiniano Mr. Wolf o del sergente di “Full metal jacket”.

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Un’ottima requisitoria contro questa ideologia si trova nel pamphlet di Alfio Squillaci “Chiudiamo le scuole di scrittura creativa!”, uscito di recente da Gog. Davanti alla letteratura, dire che la tecnica non è neutra significa ricordare che ogni procedimento di scrittura acquista o perde senso solo all’interno di un determinato organismo, a partire da una “poetica” concreta. Lo stile non è una tecnica, è una visione del mondo. Ecco perché si può “scriver male”, o costruire strutture narrative “incoerenti”, ed essere scrittori straordinari come Balzac o Tozzi, due tipacci che verrebbero cacciati dalla Holden per eccesso di errori.

 

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Nella loro reductio allo storytelling, alcuni insegnanti provano a convincere gli alunni che la trama dei “Promessi sposi” è impeccabile; invece fa acqua da tutte le parti – ma non importa, perché non sta lì il cuore del capolavoro manzoniano. Questo vuol dire che la geometria del plot conta sempre poco? Niente affatto. Dipende, appunto, dai casi. Nelle scuole e nei manuali si prescrivono certe tecniche perché si mira a un certo genere di libro. Purtroppo di solito gli aspiranti scrittori non vengono informati dell’a priori. I coach, infatti, non sono quasi mai in grado di sostenere un dibattito sulle ragioni per cui privilegiano proprio quel genere: quindi ne fanno un assoluto, finendo per riconoscerne i tratti in qualunque opera canonica e scivolando verso l’impostura. Ma al di là degli imbrogli, il metodo prescrittivo ha comunque un difetto radicale, che Squillaci denuncia trasferendo nel campo dell’arte la critica di Guido Calogero alla logica formale: come non si può “staccare una logica del pensare da una logica del pensato”, così è impossibile “staccare una precettistica della narrazione artistica dalle narrative già fatte”. Perciò, anziché offrire un elenco di regole, bisognerebbe mostrare come i più vari stratagemmi formali assumano una precisa funzione in alcuni grandi libri costruiti in modi tra loro incompatibili. Così però, conclude Squillaci, non avremo una scuola di scrittura, semmai una scuola di “lettura creativa”. Che sarebbe utilissima, ma che deluderebbe tanti apprendisti a cui preme unicamente affermare sé stessi.

 

Sono gli scriventi che chiamano letteratura solo quella specie di sceneggiatura pletorica oggi identificata col romanzo. Questi autori vogliono, fortissimamente vogliono produrre in fretta e in serie qualcosa che invece dovrebbe scaturire da “un esercizio estremo dell’io”, e che, fatta eccezione per i pochi precoci, sembra possibile “solo après coup, dopo che la vita s’è compiuta”. Secondo Squillaci, un uomo saggio scriverebbe forse “un solo romanzo”: bastano i “Promessi sposi” o il “Gattopardo”… Ma qui la polemica contro l’howtoism diventa un’analisi dei massimi problemi della narrativa moderna.

 

Il pamphlettista cita Flaubert, l’asceta che li ha scontati in anticipo per tutti, e rileva l’attuale “stanchezza delle storie”, che convive in modo apparentemente contraddittorio con l’enfasi narratologica. Questa stanchezza, credo, dipende dalla sensazione che le trame siano intercambiabili, dunque insignificanti, e conferma la crisi cronica del romanzo classico, ovvero di quella particolare forma narrativa in cui la vicenda di uno o più individui, attraverso uno sviluppo di eventi significativamente concatenati, intende rappresentare una “questione epocale”. Non a caso molti romanzi contemporanei iniziano a suonare falsi non appena dal resoconto di una situazione passano a un intreccio che esige scene madri e fusioni simboliche dei personaggi con lo spirito del tempo. Reggono meglio, in genere, i libri nei quali i fatti e i caratteri stanno tutti sullo stesso piano, cioè i libri che su uno sfondo statico rappresentano un’agitazione pulviscolare, refrattaria a ogni progetto o gerarchia: è la “democrazia ottica” (copyright Leonardo Sciascia) con cui De Roberto portò all’assurdo il naturalismo nei “Viceré”, e che ritorna nel “Contagio” di Walter Siti. Ma guai a farne una ricetta. Anything goes, purché funzioni.

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