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Fine

Francesco Musolino

Recensione del libro di Karl Ove Knausgård edito da Feltrinelli (1.277 pp., 27 euro)

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Prima o poi, tutto finisce. E così, anche la monumentale operazione firmata da Karl Ove Knausgård (pubblicata da Feltrinelli e tradotta da Margherita Podestà Heir) è giunta al traguardo. Un progetto ambizioso, una vera e propria lotta che ha dato un nuovo impulso all’idea dell’autofiction, stuzzicando la curiosità dei critici, facendo sognare molti scrittori, rilanciando il concept del diario autobiografico d’autore e sfidando il lettore, che si tuffa fra queste pagine con impeto e curiosità ma rischia di finire invischiato nella mole di particolari forniti e tramite i quali disseziona e analizza la propria vita. Ecco la sfida, non lo straordinario ma l’ordinario, raccontare tutto, ma proprio tutto, facendo i conti con se stessi, fra le inevitabili rinunce e i sogni infranti, descrivendo la vita di famiglia senza tacere né le frustrazioni né le piccole gioie quotidiane, scrivendo più di tremilacinquecento pagine nell’arco di sei volumi.

In Karl Ove Knausgård non c’è un pizzico di fiction, il tema è “la realtà non avvolta dal sudario della letteratura”. E così, dopo La morte del padre, Un uomo innamorato, L’isola dell’infanzia, Ballando al buio, La pioggia deve cadere, ecco Fine, l’ultimo tassello di un lungo viaggio. Qui troviamo le ricadute pratiche della battaglia intrapresa dell’autore per spogliarsi di ogni orpello borghese ed essere finalmente libero, privo d’ogni timore. Karl Ove Knausgård ha sbandierato in lungo e in largo la sua decisione di raccontare i fatti, usando i nomi reali di chi gli sta intorno ma ovviamente non tutti sono concordi con questo bisogno di sincerità estrema che si avvia, nel primo libro, con il racconto della morte del padre e della brusca educazione impartita al figlio. Fine ruota attorno al resoconto delle reazioni dei familiari dopo la lettura del primo manoscritto: i toni si scaldano, non tutti gradiscono le ambizioni letterarie del parente. Del resto, le vite narrate – fra colazioni, pannolini da cambiare e grandi bevute – sono ben lungi dall’essere felici e nessuno desidera vedersi immortalato in una posa miserabile nei secoli a venire. Finché, riponendo gli oggetti del padre defunto, l’autore trova una spilla nazista, scatenando quasi cinquecento pagine dedicate alla giovinezza e alla formazione di Adolf Hitler – ecco svelato il senso della lotta, da un lato l’autore in cerca di immortalità, dall’altra il futuro dittatore e il suo Mein Kampf – ricostruendo la Repubblica di Weimar e le sue tensioni sociali. Sono pagine – accanto a una lunga digressione su Paul Celan – che spezzano troppo il progredire del racconto e a conti fatti si arriva alla fine di questa lettura con la sensazione che la forza e il magnetismo dei primi due titoli si sia smarrito, dissolto. Eppure, rimane sempre viva la sensazione che Knausgård abbia tentato di fare qualcosa di diverso e ambizioso – talvolta folle, talvolta stravagante –. Un viaggio di sola andata verso i confini tollerabili della narrativa. 

  

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Fine
Karl Ove Knausgård
Feltrinelli, 1.277 pp., 27 euro

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