recensioni foglianti
Viaggio di una sconosciuta
Livia De Stefani
Cliquot, 192 pp., 16 euro
Si porta molto, in questo periodo, la letteratura sulla maternità. E verrebbe da dire che è fantasy, visto che di figli o non ne vuole o non ne può fare più nessuno (ciascuno scelga la diagnosi che preferisce) e invece no:
Sarebbe solo un racconto sulla schiavitù che era dover essere una madre, in quegli anni, quando non lo si voleva essere, ma poiché quella valigetta non si apre mai, è un racconto su qualcosa di più, sull’ostacolo che ciascuno di noi è alla propria libertà. Gli altri raccolti che Cliquot ha raccolto qui sono molto diversi, ma il problema della libertà e del paradosso del rifiutarla è una costante, così come lo è nell’altra raccolta di De Stefani, uscita lo scorso anno per Elliot (Gli affatturati), dove in ogni storia c’è una mania, una fisima, uno scongiuro, un’invenzione dei protagonisti per non vivere da uomini liberi, per sottrarsi dalle cose, per accucciarsi senza rantolare.
Negli altri racconti scelti qui, le protagoniste sono quasi sempre donne (una sartina che s’innamora del dirimpettaio fintanto che non alzano un muro tra i loro balconi, una provinciale che sposa un forestiero per vedere le luci della città e andare al cinema, una zia che salva il nipote quasi dissanguato dopo essersi asportato i genitali): contro il mondo, anche quando vogliono solo vederlo durante una passeggiata, perdono praticamente sempre. Non hanno diritto agli occhi, alle feste, alla vanità, ai nipoti transessuali: non hanno diritto a niente.
Scrive Giulia Caminito nell’introduzione alla raccolta che De Stefani ha una scrittura “articolata e sperimentale” e “una capacità di usare la lingua e le immagini che ogni nuovo autore contemporaneo dovrebbe avere”. De Stefani aveva anche un pudore tutto speciale: non velava niente, rimuoveva il giusto e lo sbagliato.
VIAGGIO DI UNA SCONOSCIUTA
Livia De Stefani
Cliquot, 192 pp., 16 euro