Annie Ernaux

Che godimento, la spietata Annie Ernaux

Marco Archetti

“Il posto” e “Gli anni”, per sentire, netta, “l’impressione del mondo”

Annie Ernaux, ovvero: la rigorosa necessità della scrittura. Ma prima, carte in tavola: sono un lettore che non ama a priori la scrittura comunemente definita “essenziale”, perché spesso, sotto le insegne che osannano la decrescita felice della lingua e della sintassi, si raccolgono in un sol mazzo sia grandi autori dalla misura buzzatiana, sia impresentabili ronzini farfuglianti; Werner Herzog – ovviamente vituperandoli – parlava di quei registi che si limitano a fare “la telecamera di sicurezza di una banca”, ma vale anche per chi si dà al romanzo: scrivere è, semmai, manipolare, mettersi in mezzo, mettersi in pericolo.

 

In più, siccome ormai l’han letta tutti, mi conclamo come ernauxiano neghittoso e di modesta autorevolezza, che per di più non si nasconde il timore che stia diventando la scrittrice “che bisogna per forza leggere”, presupposto del fatto che così non la leggerà più nessuno, se non certe professoresse-ziette coi capelli azzurri, quelle non grazie alle quali, ma nonostante le quali si ama la lettura, che la vorrebbero addomesticare entro le svenevoli coordinate di una generica scrittura “al femminile”, riducendola a carne per schede di lettura. (Viene in mente Julio Cortázar: “Perché possediamo una zia che ha tanta paura di cadere all’indietro?”).

 

Ad Annie Ernaux sono arrivato tardi e non ho scuse: ero in giro. Quel che accade, del resto, ogni lettore lo sperimenta da sé: leggi un libro e pianifichi la lettura di un secondo, ma ecco che il primo, senza preavviso, te ne suggerisce un altro; allora tu obbedisci, ti offrono un cioccolatino e che fai, rifiuti? Sennonché, anche quell’autore ti frega, e ti piazza sotto il naso un’altra irresistibile esca. Da lì, effetto domino: nome chiama titolo, si confondono gondole e transatlantici, tutto si fa periplo, clinàmen, naufragio. Finché arriva una mattina d’estate, in poche ore divori “La letteratura è fuoco” di Mario Vargas Llosa (“Resurrezione di Belzebù, o dissidenza creatrice” è un saggio da imparare a memoria) e ti si risveglia la voglia di leggere un romanzo radicale, che tratti la materia della vita prendendola per il bavero e assumendosi il rischio di ogni prosa che si rispetti; la voglia, in altre parole, di una scrittura che non sia trastullo ma verifica, attraverso la pagina, della tua esistenza.

 

Così ti torna in mente lei. E’ il suo momento. “Il posto” e “Gli anni”, per me, sono stati questo: scabro e misteriosamente essenziale il primo, che ho preferito; palinsesto di vita privata e collettiva il secondo, che reca forse la filigrana di un latente moralismo. Ma in ogni caso, al di là dei gusti e delle considerazioni formali, la sensazione che si ha nel leggere entrambi è sentire, netta, “l’impressione del mondo”, ossia la traccia delle cose che ci riguardano, e l’incoercibile fiducia in una letteratura della necessità, che concepisce la vita come non vana, quand’è passata al vaglio di una poetica – culto commovente, estremo. Leggendoli, si ha la sensazione che questi romanzi si costituiscano sotto i nostri occhi con la stessa materia di cui è fatta la vita quotidiana, ma trasformata dalla capacità dell’autrice di essere impavida di fronte alla confusione esistenziale se affidata al logos della scrittura; atto d’amore verso due scontrose alleate, la letteratura e la vita, che non si fa mai parafilia, e tripudia a ogni pagina. Godiamoci dunque Annie Ernaux, ma celebriamola per quel che è: sessuata, panica, spietata. E salviamola – siamo ancora in tempo? – dalle ziette.

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