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Uffa!

Ah, Sudamerica... Com’è difficile essere liberali nella terra di Vargas Llosa

Giampiero Mughini

Come essere liberali in luoghi dove ciò equivale a essere conservatori e reazionari? Lo scrittore in "Sciabole e Utopie": "Molto prima dell’economia, è la cultura a differenziare la civiltà dalla barbarie e a dare vita e calore alla democrazia"

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In questa sua sontuosa prefazione allo Sciabole e Utopie di Mario Vargas Llosa (Macerata, liberilibri, 2020), Augusto Mingardi scrive che “liberali” non ci si nasce, e bensì ci si diventa. A furia di sperimentare, ragionare, conoscere regimi e circostanze politiche che vanno cambiando nel tempo e che richiedono un mutato giudizio da chi ci ragiona sopra. E difatti di tutti i grandi intellettuali contemporanei il “liberale” o meglio liberal Mario Pedro Vargas Llosa, nato in Perù nel 1936, è geograficamente e sentimentalmente uno dei più ubiqui, uno che ha calpestato territori i più diversi. Dopo aver trascorso la sua infanzia in Bolivia (al seguito del nonno materno console onorario del Perù in Bolivia), è andato su e giù per il Sud America a far valere i suoi giudizi politici e morali su paesi nei quali avveniva ogni volta il finimondo, a cominciare dalla Cuba castrista di cui lui era stato originariamente un ammiratore.

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In questa sua sontuosa prefazione allo Sciabole e Utopie di Mario Vargas Llosa (Macerata, liberilibri, 2020), Augusto Mingardi scrive che “liberali” non ci si nasce, e bensì ci si diventa. A furia di sperimentare, ragionare, conoscere regimi e circostanze politiche che vanno cambiando nel tempo e che richiedono un mutato giudizio da chi ci ragiona sopra. E difatti di tutti i grandi intellettuali contemporanei il “liberale” o meglio liberal Mario Pedro Vargas Llosa, nato in Perù nel 1936, è geograficamente e sentimentalmente uno dei più ubiqui, uno che ha calpestato territori i più diversi. Dopo aver trascorso la sua infanzia in Bolivia (al seguito del nonno materno console onorario del Perù in Bolivia), è andato su e giù per il Sud America a far valere i suoi giudizi politici e morali su paesi nei quali avveniva ogni volta il finimondo, a cominciare dalla Cuba castrista di cui lui era stato originariamente un ammiratore.

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Un giudizio che Vargas Llosa andrà rovesciando sempre più radicalmente dopo il 1971, dal momento in cui lo scrittore cubano Heberto Padilla viene arrestato (lui e sua moglie) per avere espresso “idee controrivoluzionarie” e successivamente costretto a una penosa autocritica purché lo lasciassero andar via da Cuba. L’unico tra i più famosi intellettuali di sinistra dell’epoca che si rifiutò di dare la sua solidarietà a Padilla fu Gabriel Garcia Márquez, ciò che spezzò la sua amicizia con Vargas Llosa che su di lui aveva scritto la sua tesi di dottorato. L’autore di Cent’anni di solitudine castrista era e tale voleva restare. Qualche anno dopo tra lui e Llosa finì a cazzotti, ma pare ci fosse di mezzo una donna, questione più seria che non l’applaudire o meno il regime di Castro.

 

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Dopo il 1987 Vargas Llosa fece politica in prima persona in Perù, da fondatore del Movimiento libertad. Da liberale nel 1990 si candidò alla presidenza della Repubblica peruviana, una contesa nella quale fu battuto al secondo turno da Alberto Fujimori, il quale attrasse a sé i voti della sinistra per poi realizzare nel 1992 un colpo di stato con il quale buttare a mare le libertà fondamentali del popolo peruviano. Nel 1993 Vargas Llosa chiese e ottenne la cittadinanza spagnola. Da liberale arciconvinto era divenuto un reietto agli occhi delle sinistre le più accese di tutto il mondo. Il libro pubblicato dalla casa editrice maceratese, una roccaforte della cultura liberale in Italia, racconta a puntino questo suo cammino intellettuale e morale a conquistare “i princìpi” della cultura liberale.

 

Sciabole e Utopie documenta dapprima il Vargas Llosa che va a Cuba e che estatico sta ad ascoltare un’intera notte o quasi il Fidel Castro che magnifica le mirabilie del regime di cui è il despota assoluto – il dittatore più longevo nella storia del Sudamerica – e nelle pagine appresso il Vargas Llosa che spregia una Cuba avvilita e immiserita da 46 anni di comunismo à la Castro. Allo stesso modo, man mano che gli scritti di Vargas Llosa pubblicati nel libro procedono nel tempo, si fa sempre più aguzza la sua polemica contro gli intellettuali pronti a denunciare l’uno o l’altro abuso dei regimi borghesi e invece ciechi e sordi innanzi alle storture profonde di paesi quali Cuba e similari. Altrettanto aguzza è la predicazione sempre più insistita di Vargas Llosa a favore di una cultura liberale cui sia congeniale la molteplicità delle posizioni e il loro confronto, l’autonomia della magistratura, il rispetto degli avversari.

 

Divenuto cittadino spagnolo, nel 1994 Vargas Llosa viene a sapere che in un piccolo villaggio dell’Andalusia è stata indetta una consultazione popolare in cui i suoi circa 1.000 abitanti dovranno scegliere tra queste due alternative, “Umanità” o “Neoliberalismo”. Ebbene, in tutto e per tutto 515 voti andarono all’“Umanità” e appena quattro al “Neoliberalismo”, inteso evidentemente dalla gran maggioranza di quei cittadini spagnoli come un’opzione politica/economica che andava contro l’“Umanità” e anzi la sfregiava. Vargas Llosa commenta così: “Da allora, non posso allontanare dalla mia memoria quei quattro moschettieri che, di fronte a un dilemma così drammatico, non hanno esitato a scagliarsi contro l’Umanità in nome di quel macabro Spauracchio, il Neoliberalismo. Si trattava di quattro pagliacci o di quattro illuminati? Di una burla alla Borges o dell’unica manifestazione di sensatezza in quella farsa plebiscitaria?”.

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E a proposito di ciò che è davvero “umano”, ossia alla portata di una creatura terrestre che non ha niente a che vedere con quelle che popolano le costruzioni utopiche di cui si fanno forti tanti ciarlatani politici, nel commentare ciò che è avvenuto in questo ultimo mezzo secolo nel Venezuela di Hugo Chávez come nel Perù di Fujimori come durante la sciagurata esperienza del governo Allende in Cile (sia detto col massimo rispetto per la persona, che pagò con la vita), Llosa usa parole che non puoi non imparare a memoria: “Voler modellare la società disconoscendo i limiti, le contraddizioni e le varietà dell’umano, come se uomini e donne fossero un’argilla docile e manipolabile capace di conformarsi a un prototipo astratto, disegnato dalla ragione filosofica o dal dogma religioso, con totale disprezzo delle circostanze concrete, del qui e dell’ora, ha contribuito più di ogni altro fattore ad aumentare la sofferenza e la violenza. I venti milioni di vittime con le quali, solo nell’Unione Sovietica, venne liquidata l’esperienza dell’utopia comunista, sono il migliore esempio dei rischi che corre chi, nella sfera del sociale, scommette contro la realtà”.

 

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Ma il bello non finisce qui. C’è che nel contesto politico-culturale dell’ultimo Novecento il dirsi “liberale” non ha giovato a Llosa, al punto che molti di quelli che lodavano i suoi romanzi ci tenevano a sottolineare che non per questo erano d’accordo con le sue idee politiche. Lo raccontò lo stesso Llosa al momento in cui nel marzo 2005 a Washington gli assegnarono il premio Irving Kristol, e questa volta era un premio assegnato alla sua opera complessiva, tanto i romanzi che le prese di posizione politica. In quell’occasione Llosa cercò di spiegare in che cosa consistesse “essere un liberale”, un termine che in Sudamerica alludeva immancabilmente non già a “un amante della libertà” e bensì a “un conservatore e reazionario”, a uno che è “un complice di tutto lo sfruttamento e di tutte le ingiustizie di cui sono vittime i poveri del mondo”.

 

E tanto più che non tutti i liberali sono uguali, non tutti i liberali la pensano allo stesso modo in fatto di matrimoni gay o in fatto di separazione tra la chiesa e lo stato, e a non dire dei liberali che del liberalismo ne fanno un’ideologia dura come il cemento, convinti come sono che l’economia è “l’ambito in cui si risolvono tutti i problemi”. Questi ultimi, dice Vargas Llosa, hanno fatto più danni “alla causa della libertà che non gli stessi marxisti”. Molto prima dell’economia, è la cultura a differenziare la civiltà dalla barbarie e a dare “vita e calore alla democrazia”.

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