Terrazzo

Carissima Milano. Adesso criticarla è di moda

Michele Masneri

Tutti ora si accorgono del caro vita che investe il capoluogo lombardo. Ma il problema esiste e riguarda tutta l’Italia e i suoi stipendi. Ecco che spunta il Brianza-working

C’è stato un tempo in cui chi osava criticare Milano veniva lapidato, ed era tutto un “che c’è dietro?”, “chi te lo fa fare?”, perché la critica all’emirato milanese non era prevista, non era contemplata, Milano era un culto e la critica la bestemmia in chiesa. Era prima del Covid, nessuno poteva mettere in dubbio le sorti progressive della macroregione. Poi arrivò il tremendo Covid, che ne ha temprato la ubris, poi dopo è diventato invece di moda parlar male di Milano, se non la critichi oggi non sei nessuno. Noi lo si faceva before it was cool, vabbè. Certo il tema c’è, quello solito della città “esclusiva”, cioè troppo cara, e negli ultimi giorni diversi giornali sono tornati sulla faccenda, nello specifico Corriere e Stampa. L’assessore alla Casa Pierfrancesco Maran ha detto al primo che servono dei correttivi: bisogna “ragionare su tutto il tema casa, e non solo sulla casa popolare”. Perché “Il mercato privato è molto “aggressivo, qualcuno sosteneva che si sarebbe regolato da solo, ma questo non sta avvenendo, e dunque il rischio di un effetto ‘espulsione’ della classe media aumenta”. Se una su tre case popolari rimane vuota, ora c’è l’idea di affittarla a prezzi scontati a patto che gli inquilini poi se la ristrutturino da soli. 

 

E’ una delle tante soluzioni: il problema non è solo di Milano, diciamo. Vienna (forse la capitale europea più comunista a livello di gestione del patrimonio) storicamente ha un ingegnoso sistema per cui quando i prezzi immobiliari salgono troppo automaticamente si costruiscono nuovi alloggi a prezzi calmierati. Al suo opposto c’è San Francisco, capitale mondiale della gentrification, dove se non dormivi in un sottoscala in sette non eri un vero startupper, e ora però ha appena approvato una legge per cui chi lascia le case sfitte dovrà pagare una ennesima tassa. La “proposition M” o “empty homes tax” prevede un’ammenda da 2500 a 20.000 dollari per i proprietari che le tengono sfitte per più di sei mesi l’anno. 

 

Milano dovrà trovare la sua strada: e certamente deve ragionare col suo nuovo ruolo: ci piaccia o no, non solo è l’unica città europea d’Italia, ma si è anche riposizionata tra le capitali europee: se a causa della demenziale Brexit Parigi è diventata Londra, Milano potrebbe essere la nuova Parigi. Tutte città non proprio celebri per la loro economicità, peraltro, e chi si avventura nelle “alpha-cities” è da sempre pronto a sborsare il 90 per cento del proprio stipendio per alloggi scamuffi, all’inizio. Il fatto è che il problema nostro non sono le città. Sono proprio gli stipendi. Milano questa volta non ha colpe: e certo sarebbe assurdo che quello che la rende unica, una classe di creativi che riescono nel giro di una generazione a creare enormi multipli di valore, fisico e simbolico, fosse costretta ad andarsene. Rimarrebbe solo una enorme e desolata Citylife. Milano è fatta proprio dalle persone che la abitano, non è una città di paesaggi, non è una città che può prescindere dai suoi abitanti (col Covid, infatti, se tante città erano magnifiche, Milano non esisteva, era risucchiata in sé stessa).

 

Più gente c’è, più Milano si gonfia e straborda. La città dei 15 minuti è ormai la città delle mezz’ore, dei tre quarti d’ora. Tutta la Lombardia è Milano. E fa impressione l’orizzonte delle aspettative dei suddetti trentenni creativi che, se sprovvisti di patrimoni famigliari, non hanno alcuna speranza di metter su famiglia e vita stabile lì, ma pensano piuttosto di andare a vivere a Pavia, Cremona, Monza (Monza è al momento molto gettonata, anche dagli americani di stanza a Milano, ci sono buone scuole internazionali, ci si mettono dieci minuti di treno. Il Brianza working è la fascia alta del south working). Del resto dal Duomo ci si impiega meno ad andare a Brescia (32 minuti in alta velocità, case in vendita a 2.000 euro al metro quadro) che a Turro (4/5.000 al metro). Qui ovviamente fa la differenza l’essere o meno sulle linee della metropolitana stavolta d’Italia (i bergamaschi, un po’ tagliati fuori, si consolano però con l’aeroporto).

 

Ma Milano la puoi tirare e allungare finché vuoi: il problema rimane però sempre quello, gli stipendi. In questo la città è solo un clamoroso reagente di una situazione generale in Italia, per cui abbiamo dato per scontato che sia normale guadagnare 1.200 euro magari a finta partita Iva. Poi uno si lamenta perché a Milano non campa, anche se è ceo e founder di qualcosa (tutti sono ceo e founder di qualcosa a Milano). Ma anche a Campobasso o a Cantù-Cermenate fai la fame, pur non essendo ceo, se non puoi contare sulla solita casa di nonna e la pensione di nonna. A Milano diciamo che è solo più evidente e paradossale (secondo i dati rilasciati dall’istituto Tagliacarne, Milano è la città dove si guadagna di più in Italia). Qualche mese fa fece scalpore l’offerta di lavoro per social media manager del comune: lavoro dei sogni, nella nuova capitale anche instagrammatica del paese. Solo che lo stipendio era 1.300, a partita Iva, lordi. Pensa se guadagnavi poco: insomma devi fare il smm del comune di Milano ma vivendo a Pantigliate, tra le rane (più che un lavoro, un esperimento sociale). E’ un problema complicato, insomma, e però certo, 120 miliardi magari potevano essere messi in parte sulla questione stipendi, piuttosto che rilanciare imprese edili e ristrutturare le case di nonne magari già abbienti (sempre loro, che poi tante volte le tengono pure vuote, vabbè).

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).