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Joe dei miracoli

michele masneri

Vita breve e opere somme di un grande designer novecentesco. Joe Colombo (1930-1971) e i suoi prodigi in mostra alla Gam di Milano

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Intanto il nome, che è sì Joe, ma si legge “Gioe”, e non Giò, “come Giò Ponti, che lo amava, e che gli pubblicava tutte le sue cose su Domus”, racconta al Foglio Ignazia Favata, architetta e curatrice della mostra appena aperta alla Galleria d’Arte moderna di Milano, “Caro Joe Colombo, ci hai insegnato il futuro”.

 

E lì, tra i Canova e gli Hayez e i Previati e l’Ottocento identitario milanese, ecco esposte le opere di uno dei più geniali milanesi novecenteschi, quel “Gioe”, nato a Milano il 30 luglio del ‘30 e morto, giovanissimo, nel ‘71. Architetto, pittore e designer. Formazione artistica, con quella “nuclear art” dei vari Baj e Dangelo, che terrà nascosta, per non sembrare fru-fru (stessa sorte che a lungo toccherà al maestro Giò); e poi col Politecnico dove si laurea in architettura. Il padre gli lascia in eredità una fabbrica (altro elemento forse di sospetto); da questo mix vien fuori un grande eclettico nel paese che odia l’eclettismo: amante del jazz, della psicanalisi, dello sport (fino a diventare maestro di sci).

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Ha disegnato case (poche, tra cui la sua leggendaria); alberghi, allestimenti (molti), racconta l’architetta e depositaria della memoria colombiana. Ma è col design che raggiunge la fama, anche se fama un po’ laterale, di nicchia e mai mainstream, anche per la precoce scomparsa. E qui ecco le creature che lo resero celebre: il famoso carrellino Boby (1970), sorta di cassettiera super-sexy che è una specie di  Kartell “on steroids”; nata però come sempre per usi umili, doveva sostituire il classico carrello da studio di architettura (di ferro pesante) ma qui trasposto in leggero Abs oggi anche in colori brillantissimi per la B-Line (ma gli intenditori cercano esemplari vecchiotti battendo le campagne). O la poltrona Multichair (1970) composta da due soli elementi in tessuto elasticizzato che dà vita, a seconda della posizione, a un’infinità di combinazioni. O la Tube Chair (1969), fatta di enormi tubi di plastica semirigida tenuti insieme da tre giunti; o la lampada oggi riproposta Spider (1965).

 

 

Ma sono le piccole creazioni che rendono omaggio al genio: i bicchieri Smoke (1964), con l’impugnatura in grado di reggerli con un dito, e con l’altro tenendo la sigaretta. E un servizio commovente per la prima classe dell’Alitalia 1970), con piatti non solo sagomati per stare sul minuscolo spazietto che si ha davanti al sedile: ma anche con diverse altezze, per sfruttare meglio quel minuscolo spazio aeronautico. E su diversa scala poi ancora la libreria Continental (1965), “fatta per uno negozio di fotografo”, per raccogliere i rullini, racconta sempre la curatrice, o la cucina-monoblocco per Boffi che  in un cubo candido tiene insieme tutto, frigo e piano e piano cottura (1963). E la celebre poltrona Elda, guscio di plastica, prima poltrona mai realizzata (1963) in questo materiale, ma con interni in pelle che la rendono sontuosa (compare anche in qualche film di 007) o la lampada Acrilica (1962) che è un inno al metacrilato, attraverso cui la luce fluttua dentro e fuori. E la “Colombo 626”, prima applicazione della luce alogena all’uso domestico (1970).

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Passione per i materiali, insomma. si capisce, per l’uso che diventa forma e mai viceversa, fascino della produzione di serie. “Sei persone in studio, un’enormità rispetto ai concorrenti”, racconta ancora l’architetta. Memoria fotografica, sperimentazione (in mostra gli schizzi di tutti i progetti). Studia l’ergonomia coinvolgendo  la Clinica del lavoro del Politecnico di Milano. Non fa gruppo con gli altri dioscuri del design milanese, di cui è un po’ più giovane (Magistretti è del ‘20, Castiglioni è del ‘18). Se ne sta appartato.  “Barba rossa, occhi luminosi e pipa in bocca, un po’ tarchiato d’aspetto, il Gioe viveva con frenesia”, dice l’architetta. Non ha eredi, non ha figli. Fa una fine degna del suo nome, che pare un personaggio di una canzone di Buscaglione. Muore di cuore, sapendo di essere un predestinato, male di famiglia, il 30 luglio 1971, guidando – con infarto in atto – a Milano da Roma, dove aveva presentato il suo ultimo progetto, un’autoradio per la Autovox con dettagli – ironia suprema- di sicurezza innovativi per il guidatore. Qualche giorno prima, un presentimento beffardo: “leggo sui giornali che era morto Joe Colombo, il colpo viene a me: ma era un mafioso, omonimo, coinvolto in una sparatoria”, dice l’architetta Favata. Joe, anzi il Gioe, muore il 30 luglio, com’è nato, a Milano. 

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