PUBBLICITÁ

Terrazzo

Conversazione con i FormaFantasma. Il duo di progettazione italiano più cool dei nostri anni

Carlo Antonelli

La coppia è anticapitalista ma in modo volutamente ambiguo. Attinge a un fondo di rabbia che fa da propulsore al lavoro. E non è vero che sta diventando troppo disattenta alle questioni della circolarità dei materiali 

PUBBLICITÁ

Lo studio dei FormaFantasma, da quando hanno deciso di trasferirsi a Milano, è ad Assab One, che corrisponde ovviamente all’indirizzo di Via Assab 1 nel quartiere di Cimiano. E’ un’intera area che era occupata dalla gigantesca azienda grafica della famiglia Quarestani, la cui erede Elena, (donna dalla scintillante bellezza, resa da qualche anno leggendaria grazie a una pazzesca chioma bianchissima, tipo Cervino) l’ha trasformata da almeno un paio di decenni in un luogo di cultura appartato ma appuntito (arte contemporanea in particolare, e ben scelta), anticipando di parecchio la gentrificazione dei quartieri periferici milanesi di cui già si è parlato su queste pagine. Quarestani – dismessa purtroppo l’idea astronomica di realizzare il progetto di remake che Ettore Sottsass già ottantenne aveva disegnato per questo luogo – ha iniziato a subaffittare alcuni spazi a gente rispettabile. Come gli aristocratici ex ragazzi di Threes – musica più sostenibilità – che fanno l’incantato festival “Terraforma” (prossima edizione in arrivo a Villa Arconati di Bollate  nei primi tre giorni di luglio, e sono già anche al secondo numero della rivista omonima, molto elegante). E poi hanno affittato ai FormaFantasma, ovvero al duo di progettazione più rispettato, citato e ricercato degli ultimi anni. 

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


Lo studio dei FormaFantasma, da quando hanno deciso di trasferirsi a Milano, è ad Assab One, che corrisponde ovviamente all’indirizzo di Via Assab 1 nel quartiere di Cimiano. E’ un’intera area che era occupata dalla gigantesca azienda grafica della famiglia Quarestani, la cui erede Elena, (donna dalla scintillante bellezza, resa da qualche anno leggendaria grazie a una pazzesca chioma bianchissima, tipo Cervino) l’ha trasformata da almeno un paio di decenni in un luogo di cultura appartato ma appuntito (arte contemporanea in particolare, e ben scelta), anticipando di parecchio la gentrificazione dei quartieri periferici milanesi di cui già si è parlato su queste pagine. Quarestani – dismessa purtroppo l’idea astronomica di realizzare il progetto di remake che Ettore Sottsass già ottantenne aveva disegnato per questo luogo – ha iniziato a subaffittare alcuni spazi a gente rispettabile. Come gli aristocratici ex ragazzi di Threes – musica più sostenibilità – che fanno l’incantato festival “Terraforma” (prossima edizione in arrivo a Villa Arconati di Bollate  nei primi tre giorni di luglio, e sono già anche al secondo numero della rivista omonima, molto elegante). E poi hanno affittato ai FormaFantasma, ovvero al duo di progettazione più rispettato, citato e ricercato degli ultimi anni. 

PUBBLICITÁ

E’ mattina, il cagnetto che sempre accompagna uno dei due Forma (che non distingueremo nelle risposte) dorme in una cesta. Nelle domande e risposte che seguono faremo delle scoperte: che i FF sono anticapitalisti ma in modo volutamente ambiguo, che attingono a un fondo di rabbia (ma si capiva) che fa da propulsore al loro lavoro e che non è vero quello che dicono le malelingue ovvero che i due stiano diventando troppo disattenti alla questioni della circolarità dei materiali che usano e che stiano diventando come degli accompagnatori con pedigree per dare una botta chic quando devi fare una mostra. TUTTO FALSO! 


C’è da parecchio tempo un’aura di sacralità molto forte intorno a voi. Questa cosa disturba il modo in cui lavorate? 
Nooo… poi siamo stati e siamo ancora molto isolati. Noi facciamo il nostro lavoro. Non abbiamo lo studio in centro, ce lo abbiamo qui, ci dà sempre un po’ quest’idea di essere un po’ fuori, ma poi siamo sempre un po’ fuori dai giri del design, dell’arte… boh, facciamo il nostro. 


E dove andate a ravanare, a scovare, a grattare, a mettere le mani nella terra? Perché è questa idea della materia pura che ha caratterizzato l’inizio del vostro lavoro e diciamo anche il vostro exploit…
 Andiamo a ravanare in noi: il nostro modo di lavorare è dato dal fatto che siamo in due e quindi siamo in una continua conversazione. Poi la grande fonte di ispirazione ideale del nostro lavoro secondo me è il fatto di essere dei designer e quindi dalle contraddizioni di questo lavoro: che deve incastrarsi tra l’economia e l’industria, che deve far diventare gli oggetti desiderabili. Quindi è totalmente uno strumento del capitalismo, ma è anche uno strumento di trasformazione sociale… Tutte queste situazioni complesse, problematiche e ambigue sono la cosa che ci interessa di più. Noi veniamo spesso criticati per parlare di un certo tipo di tematiche, che poi non sempre riusciamo ad applicare al nostro lavoro. Ma perché a noi interessa anche scendere a compromessi, non ci interessa essere fuori dal sistema. A noi interessa essere nel sistema e cercare di fare anche piccoli cambiamenti. 

PUBBLICITÁ


Vi riferite naturalmente alle questioni sul livello di sostenibilità del vostro operare.
Esatto, è ovvio che se tu hai una tematica ecologica, allora non devi fare proprio questo mestiere… oppure lo fai e cerchi di educare il tuo cliente. Noi abbiamo in studio il Comparto educazione, il Comparto ricerca, il Comparto commerciale. E questi settori cercheremo di renderli ancora più evidenti, in modo che si influenzino a vicenda.
 

Una delle accuse striscianti che ho sentito sulla Biennale di Cecilia Alemani era: troppa plastica nuova e poca attenzione al riuso (i Forma hanno curato le capsule storiche presenti dentro il percorso espositivo, usando anche moquette, e c’è chi è inorridito, nda).
Ma lì è una visione superficiale, perché non sanno – abbiamo avuto parecchie discussioni interne – non sanno per esempio che per la prima volta la gara è stata fatta con un terzo parametro, oltre al prezzo e all’esecuzione, che è quello della sostenibilità. E, per la prima volta, noi avevamo fatto anche proposte più radicali, però per la prima volta tutti i muri in cartongesso saranno smantellati, recuperato l’alluminio, e il cartongesso verrà tritato dalla ditta che l’ha costruito per costruire nuovo cartongesso. Non è rivoluzione, ma fino a ieri non veniva fatto nulla. E’ stato fatto prima? No. Quindi, è molto facile criticare se poi non sei informato. 
 

Tu di dove sei?
Veneto, di Vicenza. 
Quindi  hai in mano la parte produttiva. 
Ho il rifiuto, o la rabbia. 
Non quel tipo di carogna che c’è nella piccola e media impresa lì. 
Odio. 
Cosa odiavi del Veneto? 
Tutto. Ma vivevo in un paese piccolissimo, quindi odiavo il clima, odiavo la mentalità, l’idea del lavoro come emancipazione e come fatica, non amore, ma  tribolazione.
E questo ha generato rabbia? E’ uno dei motori? 
Ma un po’ sì, sicuramente. Poi ho deciso di andare via.
Anche tu vieni da un posto piccolo, no? 
Sicilia, sì, un paesino piccolino, Rocca Lumera… un paesino provincialissimo, però è un posto bellissimo. Tu immagina la costa, i turisti da tutto il mondo che arrivano, il mare, il sole… cioè, è diverso che stare in un paesino della Pianura padana. La mia vecchiaia sarà lì, proprio assolutamente. 
Da dove deriva questa cosa che avete fortissima della manualità, dei materiali?
Non lo sappiamo. 
L’emersione del fantasma della forma nasce da quello, mi  sa. 
Secondo me abbiamo una profonda comprensione dei materiali a livello sensuale e non solo espressivo e tecnico. Quindi materiali che a noi comunicano anche molto a livello intuitivo. 
I materiali più forti, quelli che hanno in sé la forza più…
No, può esser anche qualsiasi roba, un pezzo di carta straccia… è come quando vedi una roba appoggiata sull’altra, in strada… Dopo esserci incontrati a Firenze siamo andati a Eindhoven, siamo arrivati lì che avevamo una rabbia… Il primo esame che abbiamo fatto era il casting dei vari tipi di cemento…   da quel momento in poi abbiamo lavorato tantissimo con i materiali… Però quella è stata la prima fase del nostro lavoro, che adesso è diventato un pochino più astratto. Il materiale c’è, ma siamo più interessati al contesto in cui il materiale si inserisce. C’era già anche in “Botanica” (la loro collezione nata nel 2010 attraverso la sola estrazione di polimeri naturali di origine unicamente vegetale o animale, nda), lo esprimevamo in modo molto più fisico perché quelli erano i nostri strumenti in quel momento. Anche lo studio si è trasformato. A Eindhoven avevamo un workshop in cui facevamo le cose, però adesso non esiste più qua. 
Non esiste un posto dove fare dei pasticci?
No no, non c’è più. Però tornerà. Abbiamo fatto un po’ come a scuola, sai quando sei alle scuole medie e devi un po’ impiastricciare per cercare di formarti. 


Quale  sarà la prossima mostra personale, se si può chiamare così?
Abbiamo un nuovo progetto di ricerca dalla National Gallery di Oslo, che aprirà l’anno prossimo a maggio… Ci è arrivata una commissione strana, riguarda la lana… Sarà un progetto sulla dedomesticazione degli animali, diciamo…
E poi ci sono quelle itineranti come “Cambio” (un’investigazione sull’uso e l’industria del legname, partita dalla Serpentine Gallery di Londra nel 2020, nda). Una delle cose su cui eravamo concentrati era di far viaggiare questa mostra senza far viaggiare il materiale in sé. Quindi ogni volta è contestuale. A Londra avevamo l’archivio dei legni. Al Pecci di Prato invece abbiamo chiesto gli erbari tropicali di Firenze, in Svizzera quelli svizzeri, in Finlandia sarà sull’industria della carta locale”.

Come impatta questa storia della mancanza dei materiali, della supply chain, dentro il discorso che state facendo?
Devo dire che non abbiamo fatto nessun tipo di riflessione o di lavoro su questa questione. Però questi sono i temi che affrontiamo per esempio a livello didattico con il dipartimento di Geo-Design ad Eindhoven, dove i ragazzi lavorano appunto su questo tema, cioè sul comprendere quali sono le dinamiche, le politiche che danno forma alla nostra disciplina come progettisti... 

PUBBLICITÁ

Tornando  alla Sicilia, c’è tutta la questione dei vostri riferimenti al  folklore, all’artigianato popolare.
Quello nasce da me… Io da piccolo ho sempre fatto parte di gruppi folkloristici, ero molto attivo nella pratica della tradizioni. 

PUBBLICITÁ

Poi c’è stato anche il lavoro per Matera Capitale della Cultura 2019.
Beh, per quello lì abbiamo lavorato in modo estensivo, l’idea di folklore, dell’approccio diverso che c’è al mondo naturale: approccio scientifico e umanistico, che però è quasi animistico, è un rapporto anche molto sofisticato con il mondo naturale. 


Qual è il vostro metodo?
Il trucco è che Andrea è organizzatissimo e da subito ha messo regole ferree: quindi noi non lavoriamo mai di notte, siamo molto precisi, molto irreggimentati. Ed è l’unico modo. Se vuoi fare questa cosa qua insieme devi esser costante. Devi avere dei momenti in cui dici: chiuso. Devi avere il momento in cui non pensi a nulla. Poi parlando ancora di lavoro, lavorando insieme da tanto tempo, ci sono delle cose su cui siamo allineati e palleggiamo. 

PUBBLICITÁ

Neanche foste Dolce & Gabbana, che c’avevano origini siciliane ed erano partiti dall’intimo nero, dai corsetti della tradizione? 
Quelli proprio no. Temiamo sempre che qualcuno tiri fuori questa cosa. E poi lì uno è siciliano e l’altro milanese. 

Il lusso è qualcosa che vi ha interessati in qualche modo?  
Non ci pensiamo mai. Ci pensiamo come strumento ovvio, che è interessante ma, di nuovo, non è il lusso come estetica ma come dimensione di qualità, garanzia e – come dovrebbe essere – di giustizia sociale, giustizia ecologica. 


Pensate che la componente politica aumenterà?
Nei lavori? Sì. Senza dubbio. Perché sì, perché non c’è altra alternativa, già per noi, ma nella generazione più giovane di noi in modo esponenziale.


Avete 39 e 42 anni, portati benissimo, dai. Creme? 
Tante.
Cosa usi? La tua crema dalla Thailandia…!”, dice uno all’altro. Costava anche poco, alla bava di lumaca…
Tornando alla questione politica – mi scuso della digressione – perché aumenterà? Semplicemente per  garantire la sopravvivenza delle cose? 
Sì sì sì, urgenza. 
Per non sparire come specie?
Sì, con il tentativo di uscirne con grazia. C’è molta lucidità in giro su questo. L’unico problema, che noi vediamo anche nei nostri studenti, in parte anche in noi, è che sono anche estremamente spaventati. E questa cosa qua non va bene insieme, perché se tu vuoi essere impegnato, politicamente attivo, ma sei spaventato, rischi di generare dei mostri. Per molto tempo noi designer avremo ancora tutti lavori che hanno a che fare con l’awareness, la denuncia, il porre l’attenzione su una cosa, la comprensione. E ci sarà poi bisogno di muovere in un’altra fase, che è quella attiva, cioè quella trasformativa. Ci vorrà del tempo. 
C’è una componente perversa nel vostro lavoro?
Mmm… non so rispondere. No, è che nel nostro lavoro c’è una complessità. Quando troviamo una soluzione per un nostro lavoro è quando ci rendiamo conto che – dopo che magari ci abbiamo lavorato tanto – troviamo un grande stereotipo che possiamo a quel punto buttare via. IL NOSTRO LAVORO E’ DISTRUGGERE QUELLO CHE ODIAMO. 

Di più su questi argomenti:
PUBBLICITÁ